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IL BUON CUORE 35


za di riguadagnarle, vengono disciolti per poi essere nuovamente legati quando cominciano ad entrare nelle oasi di Couffra, la sede del gran capo dei Senussi. Il loro cibo è composto di poca doura e di ancor più pochi datteri: pochissima acqua deve loro bastare per dissettarsi. Ed appunto in causa di questo straziante martirio essi soffrono quanto a corpo umano è dato soffrire. Spesso alle loro richieste di acqua si risponde con le scudisciate e se, affranti dalla stanchezza e dalle sofferenze, qualcuno si piega e cade contorcendosi e invocando soccorso, costui viene disciolto dalla catena e abbandonato a se stesso in quello sterminato deserto di sabbie infuocate dove rimarrà certo vittima dei propri mali o delle unghie del leone. Una giovine che abbiamo nel nostro istituto racconta spesso l’avventura toccata ad una sua compagna di viaggio: ma, raccontando, i suoi occhi par che riveggano la scena macabra ed un tremito nervoso le percorre tutto il corpo come inorridita e chiude gli occhi come se più non volesse vedere quell’opera nefanda di umana malvagità. Essa dunque racconta che la sua compagna di viaggio, fiaccata dalla stanchezza e dalla sete, implorò una stilla d’acqua: ebbe in risposta delle scudisciate che lasciarono dei solchi sanguigni sul suo gramo corpicino. Si sforzò a tacere e a camminare ma, non potendone proprio più, si abbandonò a se stessa e si lasciò cadere sulle roventi arene. Un arabo inferocito accorse: la fustigò ed essa non si muoveva come se fosse morta: l’incitava con le percosse e con le bestemmie a proseguire ed ella, per tutta risposta, chiedeva da bere. Allora il carovaniere la prende per una mano, trae un coltellaccio, e taglia il povero braccino stecchito fin sotto l’omero. Un grido lacerante rispose al ghigno di demone dell’aguzzino: tutta la catena inorridì ma, doveva far finta di non essersi accorta di nulla. Il corpicino mutilato rimase là, sotto la sferza del cocente sole africano, sulle sabbie che si arrossavano allo spicciar del sangue. E la carovana continuò mentre quella belva, d’ogni belva più feroce, lasciato da parte lo scudiscio, minacciava e picchiava gli schiavi con il braccino della misera creatura.

Il padre Apolloni tace, commosso da questo ricordo ed io mi sento dei brividi di freddo serpeggiarmi per tutto il corpo. Dopo un poco io interrompo il silenzio.

– Ed una volta rientrati nelle terre abitate, che cosa avviene di questi schiavi?

– Vengono rinchiusi nelle Zanie, che sarebbero i recinti dei Senussi, a due chilometri da Bengasi, e di qui, travestiti, nottetempo, alla spicciolata, sono mandati a Bengasi. Fra le tribù beduine la compera e la vendita degli schiavi è fatta pubblicamente: in città, clandestinamente.

– E le autorità?

– Le autorità stanno quiete perchè adoperano anche esse gli schiavi o per i loro servizi o per mandarli in regalo. Moltissimi sono inviati a Smirne e a Costantinopoli dove prestano servizi di guatteri, contadini, bambinai, presso le più ragguardevoli famiglie. Abbiamo noi parecchi negri che sono stati schiavi di famiglie ricchissime e che poi sono fuggiti e sono stati da
noi ricoverati. Venendo da Bengasi ne ho portati con me otto che sono sparsi un po’ per tutta Italia. Uno solo è rimasto con me.

– E sta qui in casa?

– Sì.

La curiosità e più che la curiosità un sentimento buono, un desiderio di conoscere qualcuno di questi sventurati mi fa dire:

– Perchè, padre, non lo fa venire un po’ qui?

– Volentieri!


Il piccolo Abdallah.

Esce dalla sala e dopo un po’ ritorna seguito da un bellissimo negro del Sudan con tanto di colletto e di cravatta bianca che con un fare di persona abituata in società si presenta, mettendo in mostra nel sorriso largo da fanciullo, una chiostra di denti forti e bianchissimi, facendomi un beli’ inchino e stendendomi la mano.

– Come ti chiami? — gli domando io, salutandolo.

– Abdallah Michele — mi risponde franco con una bella voce maschia e sonora.

– E di’ un po’ al signore che significa il tuo nome?

– Lo schiavo di Dio!

– Vede? — mi dice il padre Apolloni — è così vero che negro e schiavo per gli arabi è la stessa cosa che in arabo abd significa nel medesimo tempo negro e schiavo.

Intanto il padre Apolloni viene chiamato fuori per un momento ed io rimango solo a solo con il negro.

– Dunque tu ti chiami Abdallah Michele? — dico tanto per riattaccare il discorso.

– Sì.

– E di dove sei?

– Di giù, molto di giù.

– Del Sudan?

– Sì — mi risponde non so se convinto della sua affermazione.

– E che ti ricordi della tua schiavitù?

– Molta sete, molte battiture e la perdita di un paio di ciabatte.

– Un paio di ciabatte?

– Sì. Quando stavo a Bengasi facevo il bambinaio: un giorno fuggii e andai dal console itaiiano — mi narrò, parlando benissimo la nostra lingua — che mi fece un biglietto di presentazione al governatore turco per essere dichiarato libero ma suddito ottomano. Così sono andato da padre Girolamo e facevo dei servizi a lui tanto per non dare nell’occhio al governatore turco. Un giorno che stavo con un compagno facendo la spesa, vidi tra la folla il mio padrone che, appena mi riconobbe, mi si mise a correr dietro per riprendermi. lo fuggii, ma siccome le ciabatte m’impedivano un po’ la corsa, io le buttai via e mi sono rifugiato presso il console francese che mi ha riconsegnato a padre Girolamo.

– E tuo padre e tua madre li ricordi?

– No.

– E a padre Girolamo vuoi molto bene? Non mi risponde, ma stringe le labbra e spalanca gli