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230 IL BUON CUORE


del Mariotti è di quella frase orgogliosa ed ebra di vittoria pervaso da cima a fondo. Null’altro che la potenza del volo conquistato dall’uomo vedeva il popolo nell’apparecchio dei fratelli inventori; e la fantasia collettiva era eccitata da questa idea, ed era essa, non il valore o le deficienze dell’apparecchio, ciò che suggestionava e preoccupava le masse, che suscitava i commenti, che alimentava le critiche scettiche... dei ben pensanti del tempo forse più numerosi che non ai nostri giorni.

Il piccolo prezioso lavoro del Mariotti di cui non resta ormai che una sola unica copia, salvato come abbiamo detto poc’anzi dalla bibliofilia di un colto collezionista, Alessandro Piceller, non vale certo gran che come opera teatrale, ma è evidentemente vero in molti suoi particolari. È una pagana di cronaca sceneggiata della seconda metà del secolo XVIII; e come tale è vivamente interessante. I preparativi, le ansie dei primi volatori (cui dapprima un divieto regale aveva proibito di tentare la prova che pareva follemente pericolosa), gli entusiasmi del ritorno, i dialoghi degli spettatori, la descrizione stessa dell’apparecchio non poteva essere studiata che sul vero. E d’altra parte il Mariotti null’altro si era proposto col suo lavoro, che d’informare della novissima verità i suoi buoni perugini. L’intonazione molto discreta, rispondente a certe esigenze teatrali del tempo, le disposizioni convenzionali delle parti, si animano, a malgrado della volontà dell’autore, che evidentemente non voleva apparire troppo audace, nè urtare alcuno, di un vivo soffio di verità che anima sopratutto... indovinate chi? le figure delle due aspiranti aviatrici, cioè a dire delle due uniche donne del rapido bozzetto teatrale. E notate, non v’è ombra di sarcasmo nella rappresentazione di queste due coraggiose fanciulle che anelano a librarsi anch’esse nell’aria con i valorosi inventori. E questa attitudine dell’autore, che mette anzi il coraggio e l’entusiasmo delle due donzelle, a contrasto del baldanzoso e tronfio scetticismo di un provinciale nobile ed ignorante, dimostra chiaramente come il fondo dell’episodio poetico sentimentale debba avere avuto un riscontro nella realtà. Una delle due fanciulle è sospinta a voler tentare la grande prova da un sentimento di amore verso un aeronauta coraggioso; l’altra vi è mossa da un’ammirazione sincera verso la scoperta novissima, da un sentimento di femminile fierezza che l’induce a dimostrare essa stessa il coraggio che non venne meno alla fanciulla innamorata. E poichè entrambe sono dolcemente respinte dai piloti della mongolfiera, che voglian tentar da soli per la prima volta il pericolo promettendo loro di accontentarle quando sieno di sè stessi più sicuri; esse seguono frementi e palpitanti il volo audace, e l’una trepida per il suo diletto; e l’altra si accende e palpita nell’entusiasmo dell’esperimento trionfale... E questa seconda figura di donna, più dell’altra, dotata di forza singolare, deve pur apparire sulla scena — come apparve certo nella realtà nei verdi prati dei giardini regali, con il ricco vestito dai rigonfi paniers e con lo zendale calato sul volto.

La giovane donna coraggiosa aveva bensì tentato di
commovere i viaggiatori aerei affinchè la traessero con loro nel campo delle nuvole, ma aveva velato la sua arditezza con la serica benda, che — ella dice — non avrebbe sollevato — neppure quando la navicella avrebbe solcato le vie celesti....

Confesso che le due amabili figure femminee, che appaiono nel libretto del Mariotti, che fu spettatore di quel primo grande trionfo, trionfo scientifioo, mi hanno lasciato un poco pensosa e commossa.

Ricordai allora le belle creature anelanti di entusiasmo nell’aerodromo dei Parioli, rammentai la dolce frase corsa sulle labbra della leggiadra incognita dalle mani ingombre di fiori di campo, e pensai che forse la maggior differenza fra le spettatrici delle Tuileries di un secolo e mezzo fa, e quelle che oggi seguono con acceso sguardo di desiderio le evoluzioni dei velivoli snelli, è sopratutto negli storiati abiti a paniers e nel zendale calato sul viso.

Dalla mia stanza1


Chioma di quercia, che t’innalzi ardita
quasi a toccare il cielo, —
non mi torrai di contemplar la vita,
la dolce speme ascosa in suo bel velo
d’oro fulgente, che d’amor cotanto
Milano onora, sua difesa e vanto.

O Madonnina d’oro
del nostro Duomo, come tu sei bella
quando ti bacia il sol dall’oriente,
e allor che del ponente
la più leggiadra stella
e tutte l’altre in coro
vengono ad ossequiarti lor regina,
come sei bella, o nostra Madonnina!

Ma pur qui tra le palme e rose e gigli,
a cui tanto somigli,
io ti veggo, o Maria, qui ricordando
gli orti del pio Filippo antichi, dove
ei depose di Cristo i forti atleti,
che a te ricorser lieti
nelle gloriose prove,
specchio d’ogni virtù, alma eroina
te invocando dei martiri regina. —

E qui ancor la basilica vetusta
del sommo Ambrogio par ripeta ognora
l’eco mite e robusta
della voce di lui, che scese al core

d’Agostino e il convinse dell’errore, —
  1. In una casa di via Lanzone, che prospetta il giardino piantumato a fianco della Chiesa di S. Ambrogio, in direzione della Madonnina del Duomo, che si vede in lontananza.