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IL BUON CUORE 37


l’opera deleteria avrebbe presto attaccato le parti vitali; bisognava un ristoratore. E il nostro poeta faceva mettere un terzo biglietto del tenore seguente:

«Lungo la negra notte, quando ogni vita è spenta, il tuo Alfredo o madre, non dorme già, ma veglia e affretta col desiderio e pregusta la tua offerta di baci e fiori. Guai se un dì avessi a restare senza quel gentile tributo del materno cuore! Eppur lo pavento, al veder che ti consumi ogni dì più nell’affanno e nel pianto. Ah! se un giorno tu, vinta dal duolo, restassi misera preda di morte, dimmi o madre, chi verrebbe ancora alla mia tomba a recar baci e fiori? La promessa «a domani» che mi rinnovi ogni mattina, non tolga alla madre mia il ristoro di riposo e di sonno che la serbi più a lungo al pietoso pellegrinaggio alla tomba del tanto lacrimato suo figlio.»

L’ammonimento era dato e dall’unica parte d’onde solo sarebbe stato accolto e osservato. Ma non lo fu che in parte. La povera donna, persuasa che il pietoso voto di visitare ogni giorno il tumulo del suo Alfredo non potesse compierlo che all’alba, e temendo di mancarvi, sorpresa dal sonno, se mai cedesse al bisogno di dormire, mai si coricava da un mese. E questo terribile trattamento inflitto ad un corpo delicato e troppo bisognoso di assoluto riposo, certo poteva essere fatale.

Il buon cuore di Millevoye vi pensa, ed è tutto in moto per trovare un espediente che valga a indurre la povera madre a concedersi un sonno riparatore. E dopo qualche giorno, fa deporre un quarto biglietto sul tumulo di Alfredo, redatto nei termini seguenti:

«Lo sconsolato dolor in cui si strugge la fiorente tua giovinezza e beltà, tu dici, o madre mia, sarebbe alleviato se a quando a quando potessi tu vedere le amate sembianze del tuo Alfredo. Ma disperi o mai che l’occhio tuo, e dì e notte affogato in amaro pianto, possa bearsi ancor nella vision del caro volto d’un figlio disperatamente lacrimato. No, madre mia, non è così; e se ti concedessi il natural riposo, come gli altri mortali lungo la negra notte, io ti apparirei in sogno».

Pietosamente ingannata anche questa volta, la sventurata cede; ma ecco che realmente quella prima notte di sonno, dopo tanta ostinata veglia rotta soltanto da brevi assopimenti scontati poi nel modo più duro, l’immaginazione vivamente impressionata dall’idea che avrebbe riveduto suo figlio, le recò innanzi, su uno sfondo di cerulea luce la calma, diafana, vanescente figura del suo Alfredo, tutto ridente e gioioso.

E il sonno si protrasse assai quella prima notte di riposo. Evidentemente la natura troppo duramente provata, questa volta volle rifarsi di tante sottrazioni. Cosicchè si svegliò, quando già il sole, di molto alzato sull’orizzonte, versava nella sua stanza flotti di luce festosa. Atterrita d’aver mancato all’appuntamento datosi col figlio là nel piccolo cimitero di Nogent, si alzò e corse a precipizio, trafelata, in sussulto nervoso, convulso alla tomba d’Alfredo.

Millevoye che stava in attesa, dall’inconsueto ritardo potè subito rilevare che il colpo fosse riuscito; e n’ebbe conferma dal guardiano; ma coll’aggiunta che la sventurata donna non sapeva darsi pace del suo ritardo e
riempiva l’aria di lamenti, ed era in agitazione e affanno da far pietà.

Un ultimo passo era indispensabile a colmare quelle ansie, a rendere più ragionevole quella misera; che avrebbe giovato quanto erasi così facilmente ottenuto se, nel più bello lo si comprometteva?

La seguente mattina, dopo una notte di sonno agitato per tema di lasciarsi sorprendere e non poter giungere più al cimitero innanzi allo spuntare del sole, la donna è già al suo posto di convegno. Ma quando getta il primo sguardo incerto sul tumulo tutto sparso di fiori rugiadosi, ecco notare l’amato candore d’un altro dei biglietti d’oltretomba. Con ansia trepida lo raccoglie e vi legge:

«Ai teneri accenti del tuo cuore, o madre mia, perchè oggi si mesce desolante senso, come di rimorso, e volgi in mente che fu colpa il ritardo a venir alla mia tomba col consueto tributo tuo di baci e fiori? Che importa l’ora, se al primo albeggiar, od al sorgere della rosata aurora, oppur quando sia già inoltrato il die? Il voto di quotidiano pellegrinaggio doloroso alla mia tomba, non era impegnativo di nessuna determinata ora. Purchè tu venga!...»

La donna si rialzò rasserenata, alleggerita; e prendendo frettolosa come sempre i perduti sentieri della boscaglia folta, si restituì alla sua casa.

Da allora, pur sempre fedele alla sostanza del suo voto, con un regime di vita più ragionevole, cominciò anche a riparare ai disastri patiti dalla sua salute. La natura, l’età, il tempo, che è buon medico, fecero il resto; cosicchè in breve volger di giorni venne a trovarsi pienamente ristabilita. Ma nonchè conoscere, mai venne tampoco a sospettare a chi doveva il miracolo della sua guarigione.

Dal canto suo Millevoye, non l’avrebbe giammai rivelato, nè per leggerezza o vanità, o per avanzare dei titoli di riconoscenza d’una giovane ed avvenente signora; bastavagli la soddisfazione del successo ottenuto, la consapevolezza di aver compiuto una buona azione.

Anzi, dacchè egli pure aveva riacquistato la sua salute, e da tempo e Parigi e gli amici e il lavoro lo aspettavano invano, decise di lasciare Vincennes per restituirsi alla capitale.


IL Prof. MERCALLI

Direttore dell’Osservatorio vesuviano

«Con regio decreto in data del 17 è stato nominato direttore dell’Osservatorio vesuviano, il professore don Giuseppe Mercalli, nostro concittadino, l’insigne vulcanologo, illustrazione della scienza europea.

«Vari erano stati i dibattiti nella commissione se dovesse prevalere il criterio di preporre al nostro istituto uno scienziato versato in fisica terrestre, piuttosto che in vulcanologia e mineralogia, ma infine ha trionfato il parere dei più che, dando il primato, senza gra-