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172 IL BUON CUORE


Un viaggio botanico

sui monti di Kai-Chan

Agosto-Settembre 1909.

Dall’altra parte del monte è un torrente detto tchoan-chan-ho «fiume della montagna da passare», le cui acque limpide muovono i magli di legno di varie cartiere, e i cupi colpi dei quali in quel momento in quel luogo suonano più belli di qualunque musica del mondo. Al piede della montagna ritroviamo l’amico fiume che dobbiamo questa volta attraversare in barca, perchè quivi l’acqua è troppo profonda per gettarvi il ponte.

Un cristiano che scende da Kai-chan ci aiuta a risolvere un problema la cui soluzione cominciava già a tormentarci parecchio: quello cioè del come fare un po’ di colazione. I nostri stomachi hanno una ripugnanza decisa al.... vuoto, e quassù i vari alberghi e le locande, diciamole così perchè le chiama così il cinese, non albergano e non danno da mangiare a nessuno. Il cristiano suddetto, però ci apre la porta ospitale di un suo amico e così possiamo riposarci, e, quello che più importa, mangiare qualcosa.

Il cavallo si trova in peggiori condizioni di noi: chiedo dell’orzo e dicono che questo anno non ne hanno raccolto; chiedo del granturco e mi si risponde che lo hanno mangiato tutto i cinghiali: ye tchou «porco silvestre», e non resta che legarlo in mezzo ad un prato e farlo satollare così.

Dopo qualche km. di via arriviamo ad altra salita, quella cioè del Siang-eul-chan «monte dei funghi odorosi» (m. 840) da cui discendiamo precisamente in un piccolo piano detto T’cang Ping «La lunga pianura» (m. 680); alle 4 arriviamo a Kai-chan ed entriamo nella casa della missione che faremo centro delle nostre escursioni.

Kai-chan (m. 730) vuol dire «monte del confine»; infatti è sulla cima di esso che si incontrano le due sottoprefetture di Nan-tchang e di Pao-Kang: e siccome questa dipende dalla Prefettura di Wing-Jang mentre la prima è soggetta alla Prefettura di Siang-Jang, così Kai-chan è doppiamente il «monte del confine».

In questo luogo apparve il cristianesimo nel 1893, e sebbene di data così recente pure questa piccola cristianità ha già una storia gloriosa.

2-3 Settembre. — Fo riposare i miei uomini parecchio stanchi dal viaggio e ci prepariamo per le erborizzazioni da fare. Ci avevano fatto credere che quassù la cartasuga era abbondante e a buon mercato, invece appena riuscimmo a trovarne un centinaio di fogli; e sono costretto a mandare in fretta un uomo a Nan-tciang per provvedere il resto.

Si stenta parecchio anche a viveri e non si può avere in abbondanza altro che riso e granturco. Oltre di questo io comincio a sentirmi poco bene, e come corona di tutto non passa quasi giorno senza un poco di pioggia.

Ciò non ostante i giorni 4-5-6 Settembre facciamo delle
piccole erborazioni vicino a casa e fino dal primo giorno vedo che i luoghi dove siamo sono una vera miniera di bellissime piante.

7 Settembre. — Piove e fa freddo. Un cristiano mi porta un pezzo di cinghiale che egli ha ucciso sorpreso a mangiare il granturco. E’ la prima volta che riassaggio carne dopo la mia partenza da Siang-Jang!

8 Settembre. — Seguita a piovere e il malessere aumenta. Kai-chan è famoso per le sue febbri malariche e non vorrei lasciar la pelle quassù.

9 Settembre. — Sebbene sempre indisposto esco con i miei tre uomini ed una guida e ci indirizziamo alla volta di un’altra catena ad occidente di Kai-chan. Per via facciamo ottimi affari in piante, semi, bulbi, radici e felci, con qualche muschio.

Mentre siamo occupati nello scavare il bulbo di un giglio un uomo grida da lontano, ma non intendiamo che cosa egli voglia a cagione della corrente del fiume. Egli è evidentemente male intenzionato, e teme forse che siamo venuti a rubargli il granturco.

Noi gli diciamo per tutta risposta che invece di perdere il suo tempo inutilmente a urlare accenda un bel fuoco perchè siamo molli dalla pioggia, e per di più ci prepari una tazza di the.

Quando entriamo in casa sua siamo accolti con tutta la gentilezza cinese da lui e da una donna che io non so se sia nonna, mamma, oppure moglie del padrone: tanto è deformata dalla malattia che essa dice di aver preso nel guardare la notte il granturco dai cinghiali. A me sembra invece che essa sia divorata dalla febbre, e siccome ho con me delle pillole di chinino gliene do alcune che essa riceve con mille ringraziamenti, e che alla nostra partenza sicuramente gettò in qualche campo o nel fosso.

Dopo di aver riposato e mangiato un boccone saliamo a vedere la sorgente del fiume che ci ha accompagnato da Nan-tchang fin qui. Il barometro al principio della salita segna m. 830.

In questa gita difficile ci si offre gentilmente di guida l’uomo di cui siamo ospiti. Egli è pratico di tutti i viottoli e si diverte a narrare un monte di favole alle quali i miei uomini fanno a vicenda i loro commenti.

Dopo un’ora di ascensione per un viottolo in cui ritroviamo le tracce della capra silvestre, del daino e sopratutto del cinghiale, arriviamo ad un piccolo miao, sacro al Dio dell’acqua Long Wang. Egli, infatti, è là seduto sull’altare e attorniato dal suo stato maggiore. Alla sua destra è il dio incaricato di spruzzare la pioggia or qua ora là e perciò tiene nella destra una specie di aspersorio e nella sinistra una bottiglia. Ai suoi lati un dio apre un ventaglio col quale fa il vento a piacere, un altro batte la scintilla che fa guizzare il lampo. Viene poscia un lanternone di idolo che personifica il tuono: e infine, in disparte, l’indispensabile Tu-ti colla sua moglietta. In alto accoccolato sopra un travicello, è In hoang — il Giove dell’Olimpo buddistico — a cui il vento ha gettato a terra il cappello che noi gli rimettiamo, tanto perchè non pigli un cimurro a quell’altezza birbona (1040 m.).

(Continua).