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DEL TANSILLO. 17

XLII.


    Se all’acqua che dal ciel per grazia viene,
La terra il grembo suo chiuso tenesse,
Quest’arbor verde che quí su mi tiene,
332Converría che seccato giù cadesse;
E se l’amata vite ch’ei sostiene
Tra le sue braccia, e notte e dì non stesse,
Questo bel frutto, o nulla o tal saría,
336Che di corlo ogni man si sdegnería.

XLIII.


    Così voi, se i bei grembi non spiegate
All’acqua che d’amor piove e discende,
Cader vedrete a terra la beltate,
340Che v’alza, ove altrui priego non s’intende.
E se alle braccia altrui non v’appoggiate,
Frutto gentil da voi nessun s’attende:
Sian di nostr’acque vostri grembi colmi:
344Siate le vite voi, noi siamo gli olmi.

XLIV.


    Quest’uva che l’altr’ier pendea sì acerba,
Ora è più dolce che del mel le canne:
Fu dura, ed ora è molle; sembrava erba,
348Ed or sembra auro, ch’uman petto affanne;
Se sempre stesse al ramo ov’or si serba,
Come il liquor daría, che lieti fanne?
Per quetar col suo frutto l’altrui speme,
352Prima da voi si coglie, e poi si preme.