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DI NICCOLÒ FRANCO. | 175 |
volgare istoria, orditi già, ma non posti in trama da i due primi in fuori, a i quali averei applicato ogni studio, se la troppa diligenza che ha la mia disgrazia del danneggiarmi non vi si fosse interposta.
Ecco le rime d’amore tralasciate nel più caldo fervore del desiderio. Ecco l’opere latine, le quali a quest’ora si leggerebbono se m’avanzasse pur tempo da parlarne con gl’impressori, e però fo oltre il possibile del poter mio, se qualche cosa io fò, nè per altro debbo esser posto in voce da’ virtuosi sì, come insieme con voi par che mi pongano, messer Lodovico Domenichi, Piacentino, e messer Francesco Reuesla, Novarese, con le lettere che di Padova e di Pavia m’hanno scritte, piace la lode a ciascuno, ma molto più a chi per qualche via sia diviso di meritarla. Egli è chiaro che tutte le musiche non vagliono un cece a petto a quella che sente l’uomo quando si smusica delle sue lodi. Io penso che le serpi s’incantino col bisbiglio di qualche lode, e che la vera arte di san Paolo ch’hanno i ciurmatori, sia quella, mentre a’ loro bussoli, ed a’ loro cartocci danno cotante lodi, che diventano predicatori d’un popolo. La lode porta gusto fino agli stomacati, e mi do ad intendere che i sordi ancora non ci son sordi. Drittamente si può ella assomigliare al mal passo d’una scala, dove chi saglia o scenda (per avvedutamente che ’l faccia) sia costretto, che sminuzzandogli il piede ci dia giù. Ma qual lode