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NICCOLÒ FRANCO.


al signore


CHRISTOFERO PICCA.


Quanta invidia saría degl’ invidi, se le lodi che voi con tutti i buoni mi date, fussero a quest’ora così chiare al mondo, come gli sono le forze della mia penna. Senza dubbio il cuor suo se ne scoppierebbe sì, come il mio tutto giubila nel vedermi esser invidiato. Ma che dich’io? l’invidia non pur se ne struggerebbe, ma se ne morrebbe affatto. Ond’io che ho a caro che la mia virtù sia sempre sollecita nel tormento degl’ invidiosi, e che si pasca non del vedergli in un punto morti, ma del loro vivere con lunga morte vò fuggendo di trafiggerli col fargli leggere quel che di me si scriva da questi e da quelli ingegni, che delle mie lodi son teneri; e per questo m’è paruto di non interporre nel mio volume i quattro sonetti uscitivi della benignità del vostro sapere per glorificarmi il nome, stimando meglio riserbargli per quando sarà ch’io avrò agli iniqui tolto affato quel poco di fiato che respirano. Onde più convenevole sarà che le lodi, i canti, e i giubili de’ dotti ingegni s’odano nel fine de’ miei trionfi, e non pur ora, dove, benchè io sia certo della vittoria, appena (posso dire) aver posto mano alle armi, allora sì che si potranno dare a leg-