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DEL FRANCO. 151

CLXVII.


Ite corbi, augellacci disgraziati
     A danneggiare in qualche cimitero,
     E non nell’orto mio, poich’è pur vero
     4Che ’n bocca vi fottete, e con i fiati.
Razza gaglioffa, e cani rinnegati,
     Sporchi inventor di nuovo fottistero;
     Ben vi conviene, che col manto nero
     8Siate tra gl’altri augelli, segnalati.
Tengasi buono Apollo, come il sire
     De’ suoi poeti, e ’l re del caballino
     11Per farsi dal suo nunzio servire.
Che si potría più dire a un assassino,
     A un turco, a un moro, a un tartaro,
     14Che dire, fottuto in bocca comme l’Aretino.


CLXVIII.


Chì può negar, che quel soave umore
     Che l’una lingua trae dall’altra, quando
     Si stà l’uomo e la femmina abracciando,
     4Non sia gioire all’uno e all’altro core?
E quello star per lunghe assai dimore
     E bocca a bocca, e labbri a labbri urtando,
     È altro ch’andar l’anime serrando,
     8Che di dolcezza non se n’escan fuore?
E quel dolce mormorío ad udire,
     Puossi egli chiamar altro ch’un volere
     11Della dolcezza insieme conferire?
Or, se ’l suggere un cazzo sia piacere
     Maggiore, e vuommi alcuno contradire,
     14Dica mò l’Aretino il suo parere.