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120 LA PRIAPEA

CV.


Oh me beato, dice il dì sovente
     L’ortolano Aretin, che sì bell’orto
     Ebbi dal cielo, ond’ogni mio conforto
     4Ha la radice del suo ben presente.
Quì son gli smalti, ove soavemente
     Trova l’occhio guardando il suo diporto,
     E pur spira l’odor che ’l dolce porto
     8Degli angosciosi spirti e della mente.
Quì del vero gioir l’ampio cammino
     Scorgo, e pur vi contemplo intento e fiso
     11Tutto quel ch’appressar fammi al divino.
Or s’è pur ver, che gioja, pace e riso
     Quinci coglier si può, perchè il giardino
     14Non dee fra noi chiamarsi il paradiso?


CVI.


L’aratore Aretin, mentre ne’ campi,
     Dove sterile solco assorbe il seme,
     La notte e ’l giorno le sue membra preme,
     4E ritrova al desío men larghi scampi.
Qual uom, cui dentro al cuor gran doglia stampi
     Il veder secco il fior della sua speme.
     Ahi! fallace destin, dic’egli e geme,
     8Ove veggio il mio mal, avvien che ’nciampi.
Se pur nel fondo d’ogni cieco oblío
     Volgo l’aratro, neppur ha produtto
     11Di spiga un germe il lungo sudor mio.
A che Cerere incolpo in doglia e ’n lutto,
     Se non men pento, e pur conosco ch’io
     14Spargo il seme in terren che non fa frutto?