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116 LA PRIAPEA

XCVII.


Amor, che meco in quest’ombre ti stavi
     Adocchiando il bel viso di costei
     Quel dì, che volentier fatta l’avrei
     4Quella cosa, se tu non mi guastavi.
Perchè se niente niente m’ajutavi,
     Io sapea rimediar a' fatti miei,
     E aprirle ad uno ad uno i culisei
     8Con le mie salde ed ingegnose chiavi.
Ma ben veggio or, che quasi al popol tutto
     Favola son per ciò vedendo omai,
     11Che del troppo rizzar, vergogna è il frutto.
Pur il meglio è sperare in tanti guai.
     Forse non avrò sempre il viso asciutto,
     14Ch’io mi pasco di lagrime, e tu ’l sai.


XCVIII.


Solingo augello, che cantando vai
     La notte e’l dì per questo mio giardino,
     Deh fammi il verso di Pietro Aretino,
     4Ch’è’l più bel verso ch’io sentissi mai.
Non assomiglia al verso che tu fai,
     Nè a quel che fa lo storno, o’l lucherino,
     Nè augel che sia da terra, o sia marino
     8Tanto ogn’altro ed il tuo vince d’assai.
Troppo soave è la sua melodía,
     Ed a punto da corte e da palazzo,
     11E da dar spasso a qualche signoria.
Have un difetto, ch’io ne torno pazzo,
     Ma dir si può più tosto bizzarria,
     14Che mai non canta se non vede il cazzo.