Questa pagina è stata trascritta, formattata e riletta. |
100 | LA PRIAPEA |
LXVI.
Non niego o donne mie, che le borrane,
E pur le malve e le lattuche ancora,
E le biete, a chi niente l’assapora
4Ed i finocchi non sien erbe sane.
Acetto, che con pane e senza pane,
Purchè vogliate, possono ad ognora
Trarvi del ventre ogni durezza fuora,
8E ben purgarvi i buchi con le tane.
Pur senza farvi più la pancia piena
Di cotant’erbe quante qui cogliete,
11Una radice potrò darvi a cena,
La qual vi giuro, che s’assaggierete,
Vi farà sì fatt’opera, ch’appena
14L’avrete tocca, che la cacherete.
LXVII.
Debbonsi cacar sotto di paura
Costoro, che mi sentono bravare
Con l’erbe mie che gli faríen cacare
4Se alcun stitico fusse per sciagura.
Tanto che ciò, parendo cosa dura,
L’orto mi si potrebbe abbandonare,
E questo bell’avanzo io potrei fare
8Per dar de’ miei rubarberi per cura,
Deh buona gente, che v’ajuti Dio,
Se sfamar si volessi alcun la fame,
11Altro che malve e biete ha l’orto mio.
Non dubitate ch’alle vostre brame,
Nespole e sorbi e cornole ho pur io,
14E cose assai che stoppano il forame.