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64 Capitolo III.

nella sua natura nè il patire nè il fare. Ma intendiamoci, risponde Platone, nel mondo intelligibile essere attivo ed esser passivo non s’hanno ad intendere in senso materiale: se l’Essere è l’oggetto della conoscenza (e questo è il dogma di Parmenide, che gli amici delle idee accettano e mantengono), chi conosce è attivo, e in un certo senso dunque fa, e chi è conosciuto è passivo, e in un certo senso dunque patisce1.

Badisi, ripeto: fino a qui l’Essere è considerato solo come conoscibile, non ancora come conoscente; come passivo, non ancora come attivo2. E questo basta per la presente questione. L’Essere, aveva detto, è ciò che ha capacità o di fare o di patire (εἴτε… εἴτε), non già e di fare e di patire. Dimostrato che patisce, non occorre dimostrare che fa: basta che possa esser conosciuto, perchè sia Essere. Le idee sono conoscibili (νοητά); dunque le idee sono3; ma, per ciò che così esse partecipino dell’Essere, non c’è necessità alcuna che abbiano ad essere anche attive, cioè devano altresì fare, in qualsiasi senso questo fare si prenda. L’attività, quindi il conoscere, l’esser νοερόν oltre che νοητόν, appartiene a ciò che compiutamente è4, e questa attività significa che in lui è e moto e vita e anima e in-



  1. Anche nel Teeteto, p. 153 B, l’imparare è movimento, mentre a p. 156 A il movimento del mondo fisico si distingue in due specie secondo che ha potenza o di fare o di patire. Del resto, nota giustamente il Gomperz (o. c. I p. 455), Platone non si cura di distinguere la passività vera e propria di ciò che è affetto da un’azione (p. es. “la corda è percossa„), da quella di semplice relazione (come “il sole è guardato„).
  2. Pag. 248 E. Per la questione del movimento che ne consegue veggasi l’ultima parte della nota a p. 249 D.
  3. Questo modo di presentare il problema importa l’affermazione dell’esistenza reale delle idee fuori di noi.
  4. Pag. 248 E: τῷ παντελῶς ὄντι. Non occorre notare che ciò che compiutamente è, è ben diverso dal nudo Essere: esso è τὸ καὶ τὰ γένη πάντα ἐν ἑαυτῷ συνῃρηκός, come ben lo intese anche Simplicio, in Phys. I, 3, p. 136 l. 24.