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58 | Capitolo III. |
O indica questo è la identità tra il soggetto e il predicato, come volevano quei sofisti che negavano potersi dire “l’uomo è buono„, come abbiamo appena veduto? Platone tenendo una via di mezzo tra le due prime elimina implicitamente quest’ultima questione. Quando egli riteneva che le cose dovessero la loro esistenza alla presenza in sè delle idee, la copula indicava non l’Essere ma la partecipazione del soggetto con l’Essere: quando ritenne che le cose fossero immagini delle idee, la copula indicò la somiglianza con l’Essere. La copula negativa pertanto non poteva indicare che la dissomiglianza: il Non essere non è dunque altro che il diverso. Platone lo dichiara espressamente1: alla negazione in questo dialogo egli dà il significato non di opposizione (ἐναντίον) ma di differenza (ἕτερον): ciò che non è, non è necessario che sia l’opposto di ciò che è, basta che ne sia differente.
Ebbe egli ragione di intendere cosi? Osserva l’Apelt2 molto acutamente che Platone confonde i giudizi veri e proprî coi semplici paralleli: che, per esempio, a dire “ricchezza non è bellezza„ si fa un semplice parallelo, e che per aversi un giudizio bisogna che il soggetto sia determinato con l’aggiunta di tutti, alcuni, questo, ecc. Verissimo. La logica di Aristotele, dopo aver vuotato la copula di ogni sostanza, era consentanea nel fermarsi a considerare il giudizio vero e proprio di fronte al più largo àmbito dei paralleli, la contraddizione di preferenza alla negazione semplice. Ma Platone, per il quale l’Essere era pieno, fu consentaneo alla sua volta nel considerare la generalità dei casi tutti, giudizi insieme e paralleli, e nell’affermare che l’elemento necessario e indispensabile del concetto