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48 Capitolo II.

nire che cosa è ciò che è, e che cosa è ciò che non è e solo pare.

E anche noi subito dobbiamo prendere Platone in parola: la definizione del sofista pare l’argomento principale del dialogo, ma non è. Essa non è altro che la buccia1; la polpa è dentro: è una buccia però che non si getta, ma si mangia: e buccia e polpa insieme costituiscono il frutto, l’unità che abbraccia le parti, il fondamento dell’una e dell’altra trattazione, e questa unità è la dialettica e il suo esercizio. Per chi non se ne fosse accorto, lo dice abbastanza chiaro il Politico, p. 285 D: “E alla sua volta ora la nostra ricerca dell’Uomo politico„, domanda il Forestiero, “ce la siamo proposta proprio per sè stessa, o non piuttosto per diventare dialettici più forti su tutte le cose?„. Anche questo, risponde l’altro, “è chiaro che su tutte le cose„. Che poi ciò che qui si dice del Politico si deva intendere su per giù anche del Sofista, non è chi possa dubitare.

Cominciamo dunque dalla parte davvero sostanziale. Essa si divide in tre momenti: 1) il Non essere, 2) l’Essere, 3) la comunione delle specie (κοινωνία τῶν γενῶν), cioè delle idee: importa dunque di conoscere e determinare innanzi tutto a quale punto del suo svolgimento era la dottrina delle idee, quando Platone si accinse a scrivere il Sofista.

Che il Sofista sia uno dei più tardi dialoghi di Platone, ormai nessuno, che non sia sofista, più dubita: ci dobbiamo dunque aspettare che il principio della partecipazione delle cose alle idee (μέθεξις) sia abbandonato2 e si applichi quello dell’imitazione (μίμησις). E così infatti è. Che quel primo principio non sia affatto più il presupposto del dialogo, risulta da ogni in-



  1. Cfr. Gomperz, Griechische Denker, II, pag. 452, e Schleiermacher, Platons Werke, II2, 2, p. 134.
  2. Sull’evoluzione della dottrina delle idee veggasi il Timeo da me tradotto (Torino, Bocca, 1906), Prolegomeni, cap. II.