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28 | Capitolo II. |
per quanto possa esser piccola. Ciò posto domandiamo loro quale è la natura comune che essi scorgono nelle cose per la quale dicono che sono; in altre parole che cosa intendono per essenza o sostanza. Sono imbrogliati? Soccorriamoli. E proponiamo provvisoriamente questa definizione. Essere è ciò che ha capacità di patire o di fare: ciò che è non è dunque altro che potenzialità (p. 248 A).
Lasciamo per un momento costoro e passiamo agli amici delle idee. Questi distinguono l’Essere e il divenire, e dicono che col corpo per mezzo della sensazione noi siamo partecipi del divenire, con l’anima per mezzo del ragionamento dell’Essere. Ora questo partecipare è il patire e fare di che abbiamo detto ora? Lo ammettono per il divenire, ma non lo concedono per l’Essere, per ciò che l’Essere, per sua natura, dicono essi, sia sempre immobile. A questo noi possiamo invece opporre, che se è vero che l’anima conosce e la sostanza è conosciuta, quando si ammetta che il conoscere è essere attivo, ne verrà di conseguenza che esser conosciuto per la sostanza è in certo modo esser passiva, e che in quanto è passiva in tanto si muove (p. 248 E). Ma non solo la passività si dà nell’Essere, ma altresì deve esserci l’attività: com’è possibile che ciò che compiutamente è non abbia nè moto nè vita nè anima nè pensiero, ma stia là immobile e senza intendimento? Se pensa, si muove, poichè il pensiero è movimento. Se infatti tutte le cose fossero immobili, non ci sarebbe intendimento per nessuna. Ma così del pari avverrebbe se fossero tutte sempre in moto, appunto perchè ciò che ha da essere sempre allo stesso modo richiede lo stare; bisogna dunque ammettere nell’Essere tanto la quiete quanto il moto (p. 249 D).
E qui ci imbattiamo subito in una gran difficoltà. Moto e quiete abbiamo detto che sono: ma poichè sono due cose oppostissime, come si ha da intendere? Appunto non che stanno tutt’e due, non che si muovono tutt’e due, ma che sono: c’è dunque una terza cosa oltre il moto e la quiete, diversa e comune a tutt’e due, ed