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Analisi. 25

associabili tra loro, di guisa che anche ciò che non è in un certo senso poi sia. E si procede a questo modo.

Innanzi tutto si cerca di definire la natura di ciò che non è. Parmenide negava che ciò che non è possa mai essere. Aveva ragione? Mettiamoci dal suo punto di vista.

L’espressione ciò che non è noi la adoperiamo tutti i giorni: ebbene, di che si può predicare il Non essere? Nè si può riferirlo ad alcuna cosa che è, nè si può soltanto dire Non essere senza dire insieme qualche cosa. Ora colui che volesse provarsi a enunciare ciò che non è, non potendone dir qualche cosa, è necessario che dica niente (p. 237 E). Ma, non che enunciarlo, al Non essere non potremo neanche attribuire alcun’altra delle cose che sono. Dunque neanche il numero.1 Eppure disinvoltamente gli attribuisco l’uno, quando dico ciò che non è, o la pluralità, quando dico le cose che non sono. E così gli attribuisco l’essere quando dico che è2 inesprimibile. E così via (p. 239 A).

Se di tal difficoltà per questa via non se n’esce, altre ancora ne sa opporre il sofista: poichè l’abbiamo detto facitore d’immagini, poniamo ch’egli ci domandi che cosa intendiamo per immagine. Quelle che si vedono negli specchi, o le cose dipinte o plasmate, risponde Teeteto. Ma il Forestiero vuole non un’enumerazione di casi singoli, ma una definizione che li comprenda tutti quanti. Immagine è dunque, risponde il giovane, ciò che è rappresentato a somiglianza del vero sì da essere un altro tale. Ma quest’altro tale è un altro tale vero? No, se ha da essere immagine. Dunque l’immagine non è veramente; ma in quanto è immagine è però immagine vera: ciò che non è, in



  1. In altre parole il Non essere non è concepibile come soggetto, e neanche è concepibile gli si riferisca alcun predicato (Apelt, nota a p. 237 C). Tutto ciò sempre secondo Parmenide, che Platone si prepara a confutare.
  2. Cfr. nota a p. 238 E.
Fraccaroli, Il Sofista. 3