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Il sofista. 153

XXII.


For. Di colui dunque che professa esser capace di fare con un’arte sola qualsiasi cosa, noi sappiamo, per esempio, questo1, che, eseguendo per mezzo dell’arte grafica imitazioni omonime delle cose, sarà capace, mostrando i disegni da lontano2, di dare ad intendere ai nuovi giovinetti inesperti, che qualunque cosa si metta in [C]mente di fare, egli è più che sufficente a farla davvero.

Teet. E come no?

For. E che poi? E per i discorsi non abbiamo sospetto che ci sia alcun’altra arte dello stesso genere, per la quale torni possibile3 i giovani che sono ancora lontani dalle cose della verità, attraverso le orecchie incantarli coi discorsi stessi,



  1. Οὐκοῦν τόν γ' ὑπισχνούμενον δυνατὸν εἶναι μιᾷ τέχνῃ πάντα ποιεῖν γιγνώσκομέν που τοῦτο, ὅτι κτλ. Così tutti i codici migliori: certo τοῦτον sarebbe più grammaticale, ma anche un anacoluto non è qui più intollerabile che altrove: non so quindi disapprovare la prudenza del Burnet, che torna alla lezione tradizionale.
  2. Cfr. de Rep. X p. 598 C.
  3. I codd. hanno ἠ οὐ δυνατὸν αὖ τυγχάνειν e son tutti d’accordo in correggere ᾗ e τυγχάνει, quest’ultimo non assolutamente necessario. L’οὐ chi lo sopprime (Apelt), chi lo muta in αὖ (Burnet, che legge: ᾗ αὖ δυνατὸν 〈ὂν〉 [αὖ] τυγχάνει), chi in ὂν (Madvig, Advers. Crit. I p. 380). Il senso è certo.