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92 | Capitolo V. |
Platone non dicono questo1; parlano di scrivere (γράφεσθαι), non di copiare (ἀπογράφεσθαι), e non consigliano se non quello che avrebbe fatto Euclide per il Teeteto: è un’ammonizione a sè stesso, o per meglio dire è una dichiarazione, analoga a quella di Euclide, del come e perchè quei discorsi sieno stati messi in carta.
Che se Diogene Laerzio dice che Filippo trascrisse (μετέγραψεν) le Leggi, ma non dice quando, egli aggiunge però che suo è l’Epinomide. E similmente dice Suida, che attribuisce a Filippo la divisione dell’opera in dodici libri, soggiungendo che suo è il tredicesimo. Ora questo è ben più che il semplice trascrivere; e se Filippo avesse fatto questo essendo vivo ancora il maestro, non l’avrebbe potuto fare che col suo consiglio e sotto la sua direzione: l’opera sua sarebbe stata allora affatto materiale, nè v’era alcun motivo di ricordarla. L’aggiunta dell’Epinomide in ispecie, che se non è di Platone, è però secondo il suo spirito, mostra invece ad evidenza qual sia stata la parte di Filippo: egli trascrisse ciò che Platone aveva scritto, egli integrò ciò che non aveva potuto scrivere; egli fece o volle fare precisamente nell’Epinomide ciò che Platone consigliava di fare nel citato luogo delle Leggi, mettere in carta ciò che aveva udito: egli fu insomma editore, non amanuense, degno perciò, e soltanto perciò, di essere espressamente ricordato.
Fortunatamente dunque non si può dire che dalle osservazioni del Blass quello che era stato finora il caposaldo della cronologia delle opere platoniche venga
- ↑ Dopo lodati i discorsi fatti, il Forestiero Ateniese non crede si possa consigliare di meglio ἢ ταῦτά τε διδάσκειν παρακελεύεσθαι τοῖς διδασκάλοις τοὺς παῖδας, τά τε τούτων ἐχόμενα καὶ ὅμοια, ἂν ἄρα που περιτυγχάνῃ ποιητῶν τε ποιήματα διεξιὼν καὶ γεγραμμένα καταλογάδην ἢ καὶ ψιλῶς οὕτως ἄνευ τοῦ γεγράφθαι λεγόμενα, ἀδελφά που τούτων τῶν λόγων, μὴ μεθιέναι τρόπῳ μηδενί, γράφεσθαι δέ.