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don clemente 57

Erano amici di casa l’uno e l’altro; la signora Selva fece loro un’accoglienza gentile ma lievemente distratta.


La seduta si tenne nello studiolo di Giovanni. Era così piccolo che il bollente don Farè, non potendosi tenere aperte le finestre per un dovuto riguardo ai reumi di Dane, vi si sentiva soffocare e lo disse con la sua rudezza lombarda. Gli altri finsero di non udire, meno di Leynì, che gli accennò silenziosamente di non insistere, e Giovanni che aperse l’uscio del corridoio e l’altro vicino che dal corridoio mette sulla terrazza. Dane sentì subito un odore di bosco umido e bisognò chiudere. Sullo scrittoio ardeva una vecchia lampada a petrolio. Il professore Minucci soffriva di occhi e chiese timidamente un paralume, che fu cercato, trovato e posto. Don Paolo si fremette dentro: «questa è un’infermeria!» e anche il suo amico di Leynì, a cui pareva che tante piccole cure si dovessero in quel momento dimenticare, ebbe uno spiacevole senso di freddo. Lo ebbe lo stesso Giovanni ma riflesso; sentì l’impressione che del Dane e forse anche del Minucci doveano riportare coloro, fra i presenti, che non li conoscevano. Egli li conosceva. Il Dane, con tutti i suoi reumi e i nervi e i sessantadue anni, possedeva, oltre al