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nel turbine di dio 447


«So quello che volete dire» interruppe il professore. «Venite in pace, caro. Non sono credente come voi ma lo vorrei essere e aprirò rispettosamente la mia porta a chi vorrete voi. Intanto prenderemo questo, vero?»

Staccò dalla parete il Crocifisso che Benedetto aveva portato con sè e prese l’infermo nelle sue braccia potenti.

Il tragitto si fece senza guai. Adagiato nel traverso nel landau sopra una diga di cuscini, Benedetto, che sembrava diminuito di statura, rispondeva più col sorriso che colla voce fievole alle frequenti domande del professore. Questi gli teneva continuamente la mano al polso e di tempo in tempo gli amministrava un cordiale. All’entrata della villa, fosse commozione o stanchezza, il povero viso scarno dell’infermo imbiancò e si coperse di sudore, i grandi occhi lucenti si chiusero. Mayda lo portò nel suo proprio letto. Così avvenne che Benedetto, nel ricuperare la coscienza, non si raccapezzasse più.

Egli non la ricuperò, in quella sua spossatezza estrema, senza passare per ombre di pensamenti vani. Gli parve esser morto, giacere steso sulla faccia perpetuamente oscura della luna, avere a cerchio di sè l’imbuto dei raggi solari fuggenti all’infinito e vedere sul fondo nero dell’imbuto fiammeggianti occhi di stelle. Poco a poco si co-