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432 capitolo ottavo


Selva le prese le mani, gliele strinse in silenzio mentre il violoncello rispondeva per lui, amaro e grave: «Piangi, piangi, perchè non è sorte di amore e di dolore come la tua sorte.» Egli stringeva le povere mani di ghiaccio, non riuscendo a parlare. Lo capiva bene, di Leynì non aveva osato riferirle le parole terribili — vengo a morire da te — ; toccava a lui di darle il primo colpo.

«Cara» diss’egli dolcemente, paternamente, «non Le ha egli detto al Sacro Speco che in un’ora solenne La chiamerebbe a sè? L’ora è venuta, egli la chiama.»

Jeanne diede un balzo, le parve di non aver capito.

«Oh, come? No!» diss’ella.

Poi, tacendo Selva con la stessa pietà negli occhi, ebbe un lampo al cuore, fece «ah!», si porse tutta in una muta angosciosa domanda. Selva le strinse le mani ancora più forte, un singhiozzo represso gli scosse il petto, gli contorse le labbra serrate. Ella non disse niente ma cadeva se non la sorreggevano le mani di lui. La sorresse, la pose a sedere.

«Subito?» diss’ella. «Subito? È una cosa imminente?»

«No, no, La chiama per domani. Lui crede che sia domani, ma può essere che s’inganni, speriamo che s’inganni!»