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232 | capitolo quinto |
con Giovanni e l’arciprete. Chiamò Benedetto a sè, presso l’uscio e gli parlò sotto voce. L’ammalato rantolava. Benedetto ascoltò, a capo chino, le parole dolorose che gli chiedevano un atto di umiliazione santa, s’inginocchiò senza rispondere davanti alla croce scolpita da lui nella roccia, la baciò avidamente nell’incontro delle braccia tragiche a riaspirare in sè dal solco della pietra il segno del sacrificio, il suo amore, il suo bene, la sua forza, la sua vita; e, rialzatosi, uscì di là per sempre.
Il sole scompariva in un turbinoso fumo di nuvoli montanti a settentrione, dietro il villaggio. I luoghi che avevano poco prima brulicato di gente erano un livido deserto. Dalle svolte dei viottoli ghiaiosi, dietro gli usci socchiusi, dai canti dei casolari, donne spiavano. All’apparire di Benedetto si ritrassero tutte. Egli sentì che Jenne sapeva l’agonia dell’uomo venuto a lui per salute, che l’ora della potestà era venuta per i suoi avversari. Don Clemente, il Maestro, l’amico, gli aveva prima chiesto di deporre il suo abito e ora di uscire della sua casa, di uscire da Jenne. Con dolore e amore, ma glielo aveva chiesto. Fra l’amarezza e il digiuno, poichè non aveva potuto prendere la sua refezione meridiana di pane e fave, si sentì quasi