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il santo | 211 |
non seguaci, si avviarono gli studenti. Soli, assai più da lontano, seguivano i carabinieri, ultima coda del serpe di gente, che guizzò e scomparve dentro un fesso dell’ammasso di casolari fronteggianti la chiesa.
Scomparve, si torse per i vicoletti oscuri dai nomi pomposi, che riescono a un’altra fronte del villaggio, la più misera, la più deforme. Ivi, sulla ruina sassosa del monte, male affisse ai ronchioni, alle lastre della roccia, sdrucciolano in basso fra i ciottoli le stamberghe ammassellate. Le finestrine nere guardano come occhiaie di scheletri il silenzio della valle profonda, chiusa. Le porte versano sulla ruina scalini diruti. Le più non ne hanno che tre o quattro scheggioni. Qualcuna n’è rimasta del tutto vedova. Quando ci si è a fatica inerpicati dentro si trovan caverne senza luce nè aria.
«So’ mali passi, vigoli cattivi» disse alle signore dalla sua porta una vecchia, sorridendo.
Una di questa caverne male accessibili era la dimora di Benedetto. Due rivi della turba, rotta nella discesa, vi si riunirono sotto la porta aperta. Da un forno lì accanto le donne uscirono a dire che Benedetto non c’era. La turba ondeggiò intorno ai due infermi, si levarono voci di lamento. Domande ansiose, diversi mormorii risalirono per i due rivi di gente su all’altro capo della processione, dove non si era inteso il perchè di quei ge-