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di ferraccio, onde meglio riparare gli artiglieri, quindi comandò di ammainare le vele sul ponte, senza levarle dai pennoni onde la nave fosse pronta a salpare in pochi minuti.

Terminati quei preparativi, Yanez, il meticcio ed il pilota, scortati da quattro malesi dell’equipaggio, armati fino ai denti, scesero sull’embarcadero per fare una ricognizione nei dintorni, prima di avventurarsi col grosso sotto le folte foreste che si estendevano fra la riva del fiume ed il kampong di Pangutaran.


VI.


La carica degli elefanti.


Una piccola radura, malamente dissodata, scorgendosi ancora i tronchi degli alberi spuntare dal suolo, si estendeva dinanzi all’embarcadero e dietro agli avanzi di capanne e di tettoie risparmiate dall’incendio.

Al di là cominciava la grande e fitta foresta, composta per la maggior parte d’immense felci arboree, di cycas, di durion e di casuarine, e ingombra di rotang di lunghezza smisurata che formavano delle vere reti.

Nessun rumore turbava il silenzio che regnava sotto quei maestosi alberi. Solo, di quando in quando, tra il fogliame udivasi un debole grido lanciato da qualche gekò, la lucertola cantatrice, o il pispiglio di qualche chalcostetha, quei piccolissimi uccelli dai colori brillanti a riflessi metallici che, in quelle isole malesi, tengono il posto dei tronchilchi americani.

Yanez ed i suoi uomini, dopo essere rimasti qualche tempo in ascolto, un po’ rassicurati da quella calma e dal contegno pacifico d’una coppia di scimmie buto sopra un banano, e dopo aver fatto un giro intorno alle capanne, si inoltrarono verso la foresta, esplorandone i margini per una larghezza d’un mezzo miglio, senza trovare alcuna traccia dei loro implacabili nemici.

— Pare impossibile che siano scomparsi — disse Yanez, a cui riusciva inesplicabile quell’improvvisa tregua dopo tanto accanimento. — Che abbiano rinunciato a tormentarci, dopo le batoste che hanno preso?

— Uhm! — fece il pilota. — Se il «pellegrino» aveva giurato