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III.


Sul Kabatuan.


L’acqua già da cinque ore continuava a montare nella baia ed a poco a poco aveva coperto interamente il banco, su cui la Marianna si era incagliata.

Era quindi quello il buon momento per cercare di liberarsi e la cosa non sembrava dovesse essere molto difficile, poichè i marinai avevano rimarcato un leggero spostamento della ruota di prua. Il veliero non galleggiava ancora; tuttavia nessuno disperava di riuscire a levarlo da quel cattivo passo, aiutandolo con qualche sforzo.

Sbarazzata la coperta dei cadaveri che la ingombravano, essendo molti dayachi caduti sul castello di prua sotto le micidiali scariche delle spingarde ed a mezza nave, e ricollocate nelle casse le pericolosissime palle d’acciaio, che avevano arrestato così bene l’attacco dei bellicosi isolani, i Tigrotti di Mompracem si misero alacremente all’opera sotto la direzione di Yanez e di Sambigliong.

Furono gettati due ancorotti a sessanta passi dalla poppa, su un buon fondo e le gomene passate all’argano onde trarre indietro la nave ed aiutare l’azione della marea; poi le vele furono girate in modo che la spinta del vento avvenisse non più verso la prua.

— All’argano, ragazzi! — gridò Yanez, quando tutto fu pronto. — Noi ci leveremo presto di qui.

Già qualche scricchiolìo si era udito sotto la ruota, segno evidente che l’acqua tendeva, aumentando sempre, a sollevare la carena.

Dodici uomini si erano precipitati verso l’argano, mentre altrettanti si erano gettati sulle funi collegate ai due ancorotti, affinchè lo sforzo fosse maggiore, ed al comando del portoghese i primi avevano cominciato a spingere energicamente le aspe.

Avevano dato appena quattro o cinque giri all’argano, quando la Marianna scivolò, per modo di dire, sul banco su cui s’appoggiava, virando lentamente sul tribordo, per l’azione del vento che gonfiava fortemente le due immense vele.

— Eccoci liberi! — aveva esclamato Yanez, con voce giuliva. — Forse sarebbe bastata la sola marea a trarci di qui. Che bella