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306 | emilio salgari |
Un silenzio profondo regnava a bordo, da che le macchine avevano cessato di funzionare, eppure tutti i duecento e cinquanta uomini che formavano l’equipaggio dell’incrociatore erano sulla coperta, chi sulle murate, chi dietro i giganteschi pezzi delle torri. Ma nessuno parlava.
Verso mezzanotte Tremal-Naik s’avvicinò a Sandokan, il quale non aveva ancora abbandonato il suo posto.
— Amico mio — gli disse, — che cosa ci rimane da fare?
— Prepararci a morire — rispose la Tigre della Malesia, con voce calma.
— Io sono pronto; e le donne?
Sandokan, invece di rispondere, stese la destra verso l’ovest, e disse:
— Eccole: le vedi?
— Chi, Sandokan?
— Le navi nemiche.
— Di già! — mormorò l’indiano, che non seppe frenare un brivido.
— Accorrono come belve feroci per distruggere le ultime Tigri della Malesia. I loro sguardi sono ormai fissi su di noi.
Tremal-Naik guardò nella direzione indicata, mentre gli uomini di guardia sulla piattaforma gridavano:
— Navi a poppa!
Parecchi punti luminosi scintillavano sull’orizzonte ed ingrandivano rapidamente.
— Sono pronti i nostri uomini? — chiese Sandokan.
— Sì — rispose Yanez che gli stava presso.
— E Surama e Darma? — domandò con un tremito.
— Sono tranquille.
— Vorrei salvarle.
— Che cosa dovremmo fare?
— Sbarcarle su una scialuppa e allontanarle prima che quelle navi ci rinchiudano.
— Si rifiuteranno; mi hanno giurato che se dovremo morire, esse s’inabisseranno con noi.
— Vi è la morte qui!...
— L’aspettano.
— Salvale, Yanez.
— Ti ripeto che si rifiuterebbero; non insistere.
— Ebbene, sia!... Se dovremo morire, non cadremo invendicati!... A me, Tigri di Mompracem!