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168 | emilio salgari |
Era una barcaccia lunga una diecina di metri, larga di fianchi, fornita di ponte, con un piccolo pezzo di cannone collocato a prora. Alcuni uomini erano appoggiati alla murata di babordo, vestiti di bianco e sembravano indiani, dai turbantini che portavano in testa.
— Gettate una gomena — disse Yanez, mentre i suoi malesi alzavano i remi e afferravano i parang tenendoli nascosti sotto i banchi.
Una fune fu gettata dalla barcaccia e venne subito afferrata da Sambigliong che era passato a prora.
— Pronti! — sussurrò Yanez ai suoi uomini. — Quando udrete il mio comando, balzate sopra il bordo.
Con poche bracciate la scialuppa si trovò addosso alla barcaccia. Yanez e l’americano in un momento passarono a bordo della seconda.
— Chi è che comanda qui? — chiese il portoghese, con voce imperiosa.
— Sono io, signore — rispose un indiano che portava sulle maniche i galloni di sergente, salutando. — Perdonate, signor tenente, di avere minacciato di mitragliarvi, ma il capitano Moreland ha dato ordini severissimi e non posso permettervi d’approdare.
— Dov’è il capitano?
— Nel fortino.
— E la sua nave?
— Alla foce del Redjang, dinnanzi la bocca settentrionale.
— I prigionieri sono sempre nel fortino?
— Quell’indiano e quella fanciulla?
— Sì — disse Yanez.
— Ieri vi erano ancora, ma credo che appena la nave del capitano avrà compiuta la sua provvista di carbone, li trasporterà a Sarawack.
— Che cosa si teme?
— Un colpo di mano da parte delle Tigri di Mompracem. Corre voce che si siano messi in mare contro l’Inghilterra e il rajah.
— Baie — disse Yanez. — Sono tutti fuggiti al settentrione di Borneo. Quanti uomini hai qui?
— Otto, signor tenente.
— Arrenditi!
Prima che il sergente si fosse rimesso dallo stupore, il portoghese con una mossa fulminea l’aveva afferrato con la destra per la gola, mentre con la sinistra gli aveva puntato al petto una delle due pistole che teneva alla cintura.