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146 emilio salgari

Intanto la nave continuava la sua rotta verso il sud-est, tenendosi a una dozzina di miglia dalla costa.

Divorava i suoi quindici nodi, velocità assolutamente straordinaria in quell’epoca, in cui i piroscafi migliori, non esclusi gl’incrociatori, non riuscivano ordinariamente a percorrerne più di dodici.

Al largo non appariva alcuna nave; verso la costa, assai sinuosa e frastagliata da minuscoli seni, veleggiavano lentamente alcuni prahos montati probabilmente da pescatori, essendo le acque che bagnano quella grande isola ricchissime di pesci.

A mezzodì il Nebraska — tale era il nome del magnifico vapore — avvistava già l’isola di Tega e puntava direttamente verso il capo Nosong, che forma l’estremità d’una vasta isola staccata dalla terraferma da uno stretto canale che sbocca nella vasta baia di Bruni.

Alle quattro, Labuan, la colonia inglese, a cui Sandokan per tanti anni aveva dato da fare, minacciando l’esterminio dei suoi primi coloni, era in vista verso il sud.

Quasi nel medesimo istante la voce dell’americano svegliava bruscamente Yanez.

— In piedi, signor de Gomera! — aveva gridato il comandante.

Vi era nella voce un certo tono, che fece balzare subito in piedi il portoghese. Anche il viso dell’americano era assai oscuro.

— Avete qualche brutta nuova da comunicarmi? Mi sembrate sconvolto, signor Brien.

By God! — bestemmiò lo yankee, grattandosi rabbiosamente la testa. — Non me l’aspettavo, signor Yanez.

— Insomma che cosa c’è di nuovo?

— C’è... c’è... che quel maledetto indiano se n’è andato all’altro mondo senza completare le sue confessioni.

— Morto!

— Aveva qualche terribile veleno nascosto in un anello. Vi rammentate che ne aveva uno al dito medio, con un grosso corindone?

— Sì, mi pare d’averglielo veduto.

— Ho trovato il corindone levato e sotto di esso un piccolo vuoto che doveva contenere qualche granello di chissà quale sostanza tossica: ed è rimasto fulminato sotto gli occhi del marinaio di guardia — disse l’americano.

Yanez aveva fatto un gesto di collera.