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spasimo estremo, gli occhi pareva che volessero schizzargli dalle orbite e respirava affannosamente per le nari, con un rantolo sinistro, lugubre.

— Confesserai? — gli chiese l’americano che assisteva, freddo, impassibile, a quella scena, facendo segno al marinaio che teneva la secchia di fermarsi.

Il thug fece col capo un feroce gesto di diniego; ed i suoi denti scricchiolarono sulla canna di ferro dell’imbuto.

Un altro paio di litri d’acqua scorsero pel tubo. Il martirizzato, col viso congestionato, gli occhi già spaventosamente sbarrati, lo stomaco enormemente dilatato, fece ad un tratto un brusco soprassalto.

Era la sua resa.

— Basta — aveva detto Yanez, nauseato. — Basta.

L’imbuto fu tolto. Il thug aspirò a lungo l’aria, poi con voce rantolosa, mormorò:

— Assassini!

— Oh, non morrai per un po’ d’acqua! — disse l’americano. — Non si può resistere, questo è vero, ma non si corre alcun pericolo se non si continua. Parlerai?

L’indiano stette un momento silenzioso, poi vedendo l’americano fare cenno ai marinai di ricominciare, una orribile espressione di spavento si diffuse sul suo viso.

— No... no... più... — balbettò.

— Chi è l’uomo che ti ha mandato qui? Parla o ricominciamo, — disse Yanez.

— Sindhya, — rispose l’indiano.

— Chi è costui? E tu, soprattutto, chi sei veramente?

— Sono... sono... il precettore... di Sindhya... l’ho allevato... io... io... l’amico... fedele... di Suyodhana...

— E quel Sindhya? — insistette Yanez che vedeva l’indiano girare gli occhi e respirare sempre più affannosamente.

— Parla o ritorniamo all’acqua — disse l’americano.

— ... è... il figlio... di... Suyodhana — barbugliò lo strangolatore.

Un grido di stupore era sfuggito dalle labbra di Yanez, di Kammamuri e di Sambigliong. Suyodhana aveva lasciato un figlio! Era possibile? Il capo dei settarî, che meno degli altri avrebbe dovuto amare una donna, lui che incarnava sulla terra la Trimurti della religione indiana, come un giorno la piccola Darma aveva in-