Questa pagina è ancora da trascrivere o è incompleta. |
IL MARZOCCO fuori, nella solila prima fila, col solilo panciotto c col solito impiastro d’argento e di fiocchi alla mostra. B con tutte queste pagliacciate: ora bisogna fargli ripulire il soprabito tutto sgocciolature di cera; ora vuole le acarpe nere perché quelle bianche non sono decenti; ora c’è la tuba da rilustrare, se no, dice lui, si vergogna perché deve fare il discorso.... K fortuna clic da qualche anno i trasporti son diradati! B da per lutto ci voglton quattrini. Accattano per la statua di Vittorio Emanuele? una lira! Per il monumento a Garibaldi? una lira I A Mazzini? una lira 1 Ai caduti? un’altra lira 1 Non c’è mai respiro! A set tembre: il pellegrinaggio alla tornea del tale. A ottobre: alla tomba ilei tal’altro. Giovedì: c’è la corona da deporrc. Domenica: la bandiera da regalare. Oggi una nascita. Domani una morte. Eppoi c’è la vedova; eppoi c’ò il mutilato.... Insoinma, non si finisce mai, mai, mai! E quando ha dato fondo a quelli della pensione, pretenderebbe che gli dessi de’ mici. Ali, questo poi, no! Ci doveva pensare avanti. Prima, all’uscio di casa era una processione di quelli delle ricevutine. Ora gli ho diradati a forza d’usciate. Quattrini alla «fratellanza militare • c «Reduci e Casa Savoia * perché é socio. Quattrini a quelli della * Cremazione * perché è consigliere. Quattrini di sopra, quattrini di sotto, e quattrini al diavolo che se li porti tutti a!P inferno e la faccia tinita. Ne conviene? Dica se dico male! lo lo guardavo, ed egli continuava. — E, a sentir lui, io, con le mie idee, gli faccio compassione. «Ma no, caro nonno» gli ho detto tante volle. • No, caro nonno. I vostri discorsi saranno belli c buoni, ma i vostri discorsi non si mettono in tavola invece della minestra.» — Cosi gli ho detto; ma è lo stesso che predicare alle panche. M’avrebbe potuto alleggerire di qualche spesa, occupandosi lui di fare scuola ai miei bambini; ma ho dovuto smettere. Ho dovuto smettere perché con lui non era possibile discorrere d’altro che: o di patria, o d’eroi, o del solito ’risorgimento, declamando e berciando davanti a quattro o cinque tu niche intignate, di tutti i colori. E, ogni tanto, orati tremiti c lucciconi di lui, c pianti dei più piccoli, c risate del bambino più grande quando, invece di svolgere il programma, stava dell’ole a rintontirmeli a forza di racconti sii cose accadute cinquantanni fa, d’urli contro Io straniero o di minacce di mandare a primavera cinquecentomila baionette sulle Alpi, tutte le volte che aveva letto qualche notiziaccia sul giornale. Dopo sei mesi, il maggiore che avrebbe dovuto fare la terza elementare, non sapeva altro che un famoso sonetto di Filicaja; i più piccini avevano imparato a cantare: «Va’, pensiero, sull’alt dorate....» il coro dei Lotiibardi. Gli ho dovuti mandare alle scuole pubbliche. lo me ne trovo bene; lui se n’è avuto per male. Faccia il comodo suo. Ne conviene? Se le sapesse tutte, caro signore! Di quelle medaglie e d’un fastello di lettere che tiene sempre chiuse a chiave, avrei trovato persona che gli darebbe anche trecento lire. Glielo dissi.,., ma non glielo dico più perché cotcsta volta mi fece paura davvero. Ma il ponce lo vuole tutte le sere! Cosi mi raccontò il nipote. { Pochi giorni dopo, essendo inoltrato l’autunno, sentii desiderio, per vecchia abitudine, di passare una parte della serata nel consueto crocchio d’amici alla buona, c mi condussi al Gaffe che trovai vuoto e silenzioso. Non vedendo il vecchio nel solito cantuccio, domandai a Beppe, allegramente: — lì il signor Licurgo?... Coinè mai non si vede, stasera? Mosse le labbra per rispondermi; ma, a un tratto, piegò il capo, mi voltò brusco le spalle u andò diritto in cucimi. Feci un cenno all’altro tavoleggiante, che era seduto giù in fondo, come per domandargli: — Clio n* è stato? Si assicuro tho il suo compagno non potesse sentirlo; poi, piegandosi verso di me, mi diate a bassa voce, da lontano: — li morto. Renato Fucini.
Uomini, uomini; donne, donne.
Ho letto in un recentissimo studio francese sulla questione delle nuove carriere da aprirsi alle donne una specie di dialogo che suonava cosí:
— La donna nasce donna e madre prima di diventare commessa, impiegata ecc.
— Ma anche l’uomo nasce uomo e padre prima di diventare commesso, impiegato ecc.
E questa parve all’autore dello studio sopradetto (che è pur fatto con serietà e onesti fini) una conclusione magistrale del grande quesito; ma la verità di essa non è che apparente. Ben diverso è l'ufficio che la natura assegna all’uomo, il quale per divenir padre non ha molto da fare e lo diventa si può dire a sua insaputa, in confronto della donna che vi espone la vita e ne subisce prima e poi una sequela di disturbi, di privazioni, di sacrifici anche, ma insieme di commozioni e di gioie che l’uomo non conosce.
Partendo dalle stesse false premesse, Bebel incita la donna a percorrere le carriere maschili per trovare in esse un equivalente di ciò a cui è tratta da natura e per acquietare, a somiglianza dell’uomo, nella foga del lavoro e parlano molto leggermente giudicando la donna dal loro stesso punto di vista, senza tener conto che la differenza che sta fra i due sessi è sostanziale e impedirà sempre l’eguaglianza desiderata dai femministi. Fin dal momento misterioso della pubertà si sviluppa nel corpo della donna un fenomeno che accaparra le sue forze e le guida allo scopo precipuo per cui fu creata, tagliandole fin da allora la strada ad occupazioni che sperderebbero senza vantaggio di alcuno il capitale di energie sacro alla maternità.
I diritti e i doveri procedono dalla natura stessa delle cose. I diritti e i doveri della donna sono opposti a quelli dell’uomo; non è stata la società a stabilirli. Formati fisiologicamente in modo diverso, hanno ricevuto dalla natura stessa il còmpito di differenti funzioni vitali e dal momento che nessun progresso di civiltà farà mal di un uomo una madre, non c’è ragione né materiale né morale che le donne si assoggettino al tirocinio delle occupazioni maschili. Se la maternità abbisogna di una preparazione fisica, altrettanto — e come! — si dovrebbe prepararla allo sviluppo delle qualità superiori che trasformano gradatamente la madre in nutrice, poi in educatrice e in guida. Si obbietta che non tutte le donne diventano madri. Pur troppo! Ma pieno è il mondo di bimbi abbandonati, educati male, offesi in mille modi, tratti al vizio ed alla perdizione, senza amore, senza carezze, senza dolci parole. Ecco la maternità offerta a tutte le donne. C’è da rifare il mondo, nientemeno, e si vorrebbe che la donna andasse a perder tempo in cattedra e al fòro! «L’uomo di domani non è forse colui che oggi la madre alleva? E chi per necessità di cose è destinato a tale preziosa missione, dovrà rifiutarsi dal fare ciò che tutti fanno per fini assai inferiori, dal dedicarsi cioè interamente al conseguimento del proprio scopo?» Meditare questo periodo e meditare pure il seguente. «Altra cosa è posare la questione della capacità della donna e altra è il risolverla in presenza di un fatto brutale contro il quale si spezza ogni argomento ed ogni retorica.» Si può riconoscere la legittimità di certe aspirazioni, si può fraternizzare col desiderio di un miglioramento per tutte le donne, si possono, si devono anzi accogliere i voti in proposito, ma non perdere mai di vista lo scopo per cui la donna è nata donna, invece di nascere uomo.
Per quanto le vecchie zitelle formino una casta rispettabile alla quale io dedicai da lungo tempo viva e profonda simpatia, esse sono una minoranza per cui non si può sacrificare l’interesse vero di tutte le donne e della società futura. Se si potesse fin dalla nascita preconizzare l’avvenire di una bimba e decidere che ella rinunciando ai diritti del suo sesso potrà invadere quelli del sesso contrario, pazienza. Le Amazzoni si bruciavano una mammella; niente a meravigliarsi che coi progressi della scienza non si possa praticare alle neonate una operazioncina che le liberi per sempre dalla maternità. È un’idea. Solamente, appropriandosi i diritti dell’uomo, la donna non potrà cedergli i suoi. Sarà dunque una rapina senza compensi e senza profitto. I femministi se lo meriterebbero.
Partendo dall’assioma inconcusso che le energie della donna, pur essendo pari a quelle dell’uomo non sono simili, ed hanno altra missione nell’armonia della società, si viene direttamente alla conclusione logica che il soverchio lavoro mentale delle classi preparatorie ai diplomi, la tensione imposta dalla importanza degli esami, il lungo soggiorno nelle aule anemizzano per tempo la fanciulla e favoriscono lo sviluppo degli elementi nervosi a danno del deposito, per modo di dire, ch’ella deve conservare in sé per le generazioni future. Il surmenage intellettuale quasi come l’alcool avvelena il sangue della donna. Avremmo dunque in basso e in alto della scala sociale i più formidabili nemici della umanità: l’alcoolismo a cui verrà tratta la donna operaia e la nevrastenia che aspetta le laureate. Quella qualsiasi percentuale di casi che abbiamo ora in ambedue le malattie diventerebbe a regime femminista insediato una spaventosa generalità.
Ingenuità di giudizio, osservazione superficiale ed opportunismo suggeriscono la teoria che, studiando, la donna potrà eguagliare l’uomo e far senza come lui in molti casi della vita sentimentale e dei bisogni fisiologici. Ma forse che tutti uomini studiano? La maggioranza di essi non è ordinariamente ignorante? È dunque un’altra la ragione che favorisce il loro adattamento; e questa ragione è precisamente il sesso. Può la donna cambiarlo? Lo possono i femministi? No. E di qui non si esce.
Quello stesso autore citato in principio di quest’articolo dice, pure in mezzo a parecchie concessioni femministe, verità preziose che mi piace raccogliere. «L’uomo deve alle suo qualità positive di ignorare gli arcani delle facoltà della donna. In lui i bisogni dell’intelligenza, l’insieme stesso delle sensazioni procedono essenzialmente da una tendenza centrifuga. I suoi rapporti colla natura e coi suoi simili sono improntati a questa caratteristica speciale ed è un movente sufficiente per fargli ricercare nella lotta e nel combattimento un elemento armonico se non necessario, contingente almeno alla sua natura d’uomo. La donna, non bisogna stancarsi dal ripeterlo, è conformata diversamente. La sua intelligenza e le sue funzioni fisiologiche si esercitano in senso centripeto; in lei nulla è determinato dal mondo eterno; il ragionamento stesso non cede che a considerazioni affatto intime. Ciò che il suo compagno domanda ai contatti della folla, la donna lo aspetta da una specie di divinazione famigliare.» Voglio aggiungere una frase deliziosa della povera Elisabetta d’ Austria. «Facendo troppo caso dello studio la donna disimpara una parte di sé» Quale profondità e quanta delicatezza in tela pensiero!
Sono dunque ragioni d’ordine strettamente scientifico quelle che consigliano la donna a non invadere il campo dell’attività maschile e, come è naturale, la bellezza della verità scientifica trova il suo corollario nel sentimento unanime dei popoli, nel genio dei poeti. La storia e le matematiche, vedi pure le analisi chimiche e batteriologiche, non calmeranno mai le pulsazioni di un seno di vergine che anela a ciò che è veramente il suo diritto e la sua gioia sulla terra.
Per terminare citerò la curiosa preoccupazione di una femminista la quale ha testé proposto l’abolizione della parola mademoiselle e reclama per tutte le donne indistintamente l’appellativo di madame. Dove non giungerà, o mio Dio, la frenesia dell’uguaglianza?... Intanto però teniam conto che la donna nasce mademoiselle e che, per essere logica, una vera femminista non dovrebbe dare nessuna importanza alla trasformazione in madame.
Neera.
Racconti e Novelle.
Rostaono, Gì rati, Massei, Yalcaren’oiii, Delta,
De Bersa. Rosselli, Fanelli, Di Giacomo.
Ieri non ismarristi nulla qui, levando
il portafogli di tasca? — chiede una duchessina
al suo fidanzato.
— Dove vai? le son cipolle. Via, piangi e
scherzi? — risponde l’aristocratico giova-,
notto; e poco dopo, chiarito l’equivoco, soggiungo:
- Già a te ogni bruscolo pare una trave.
Be’ ridammi la lettera.... L’è una bella suzzàcchera!
B in questo tono è tutto un romanzo di
T. A. Rostiigno (Nobile Gara. Milano, Carrara),
ch’io vorrei più tosto considerare come un
repertorio dei toscanesimi più difficili e più
rari. Lasciamo stare che mi tale sfoggio di
purismo, in un romanzo che si svolgo in un
mezzo signorile, è meramente inutile, ridicolo,
c bene spesso atfatto sconveniente. Ma,
la lettura di questa Nobile Gara mi ha suggerito
alcune considerazioni su Li forma c lo
stile della nostra prosa, e specialmente della
cost detta prosa amena. Quando noi oggi
parliamo di un libro ne lodiamo sf i pregi
dello stile; ma raramente lo biasimiamo se
la forma è trascurata o scorretta. I a maggior
parte di noi, se pure avverte le bellezze di
una prosa nitida o sonora, non sento ripugnanza
per la sclattez/a che regna comunemente
negli odierni libri d’imaginazione. Il
che deriva dal fatto che da qualche anno
a questa parte si è venuto formando in Italia,
per opera sopra tutto del giornalismo, un genere
di lingua letteraria che ò in tutto simile
a quella JiAhroi, o lingua comune, che
segnò dopo Alessandro la fusione dei vari
dialetti ellenici, e foggiò uno Milo particolare
e già fatto, comodissimo por gli innumerevoli
scrittori cui natura non aveva largito il
divino dono della creazione. Oritene, nella
nostra prosa letteraria e scientifica domina
oggi una nuova *<Aumi; e nessuno di
noi può esimersi dal Tesserle sottomesso: se
pua- non voglia rifugiarsi nel ribobolo o
nel l’arcaismo. Essa è un istrumcnto prezioso
e pericoloso. Busa fu sf che ogni persona
colta possa scrivere con media eleganza e
con quello stile uniforme che ai più è grato,
perché fatto di mediocrità; ma d’ultra parte
soffoca T ispirazione con formule scialbe.
Gli scrittori veri, quelli che oggi si chiamano
scrittori di razza, difficilmente sanno
liberarsi da questu lingua comune, cosi comoda
e facile. Anzi, essi cercano di giovarsene
e di ridurla ai loro fini, apprezzandone
la grande libertà e temperandola con quella
varietà od opulenza di suoni e novità di
concetti (o quindi di forme) che solo essi
possiedono.
Ci curiamo noi di trovare negli scrittori
la ribellione contro questa uniformità che
c’invade, o il pieno consentimento allo stile
già fatto e accomodato, quasi catalogato nelle
sue forme e nelle sue dizioni? No; che anzi
preferiamo far discussioni di psicologia e
ragionare della verità dei personaggi. E pure
il grave tedio che c’invade nel leggere la
maggior parte dei libri odierni deriva dalla
preferenza data n questa lingua comune. Noi
passiamo da un volume all’altro, senza accorgerci
che l’autore è mutato: e bene spesso
ci pare che il libro dell’uno potrebbe esser
firmato dall’altro senza danno. Io ne ho fatto
l’esperienza in questo mese in cui il mio
obbligo di recensore mi ha costretto a leggere
più di venti volumi di romanzi e no,
vc^e* Ui questi, Ih inetà è alquanto varia di
contenuto; ma per la forma essi hanno quasi
tutti una qualità comune. Essi sono scoloriti
e scialbi; e le loro frasi sono quelle medesime
che passano di libro in libro e si leggono
ogni giorno nei giornali da parecchi
anni. Simili agli accademici della pittura, essi
sanno clic quel dato colore e quel determinato
gesto occorrono in una data luce c in
una determinata persona. E accozzano le parole
secondo certe regole semplici e facili,
senza né pur sospettarne la meravigliosa virtù.
Quindi io dividerò gli odierni artisti del
dire in due classi: quelli che alla lingua comune
sono tranquillamente sottomessi, e quelli
che cercano darle la maestà, o la sveltezza, o
la varietà delle lingue classiche e veramente
vivaci. È naturale che i più appartengano
alla prima categoria, c che di loro si debba
parlare più in breve. Ricordiamone alcuni.
Nazarena di Mario Corali (Milano, Libreria
editrice nazionale) è la storia di una bella
ragazza il cui amore porta sfortuna, c d’amore
muore: storia molto comune, ma avvivata da
qualche buona descrizione di paesi urbinati.
Le altre novelle che compongono il volume
hanno scarso valore e mancano di lena: cosi
il Sonnambulo, dove l’avventura galante difetta
di umorismo c non muove né pure le
labbra al sorriso. Migliori, benché vi sia
molta inesperienza giovanile, le Storie d’amore
di Galileo Massei (Brescia, Unione TipoLitografica); un giovanissimo che tenta di togliersi
dalle forme consuete, ma non vi riesce,
pur dando a sperare di sé al lettore diligente.
Scialbo in modo estremo, con lina forma clic
non ha neppure le virtù di facile eleganza
della lingua comune, è un racconto di Ugo
Valcarenghi, t’iiredita di tappino (TorinoRoma,
Casa editrice nazionale). È forse un
libro per i ragazzi? Sentite come vi è descritta
la Piazza del Popolo: «Una gran piazza
formala da due emicicli, nel mezzo della qualesi
innalza un obelisco egiziano decorato da
quattro leoni dalle cui bocche l’acqua si riversa
nelle sottoposte conche. L’emiciclo di
sinistra termina in due cancelli di ferro pei
quali, salendo tra piante secolari, si accede
al Ponte Margherita. L’emiciclo di destra è
coronato dai giardini del Pincio.» E pure
quest’uomo un tempo ha avuto fama, e. dicono,
ingegno! Non meno sciatto e, per di
più, lagrimoso ò un romanzo Su/ Lago d’Orta
di Delta (Milano, Cogliati), un anonimo che
farà bene a non rivelarsi mai. È tuttavia un
libro onesto che potrà parer dilettevole alle
famiglie timorate, c in cui trionfano, più o
meno a dispetto della logica, il sacrifizio e
la virtù. Più dilettevole alla lettura e qua e là
grazioso è un romanzo fantastico «li Antonio
de’ Bersa, Idillio Lunare, edito dalla stessa
casa: Jove si narra di un viaggio nella luna
nell’anno 3850, non senza qualche episodio
ingenuamente piacevole che tempera l’aridità
di alcune parti della narrazione.
Anch’essa un po’ troppo ligia alla lingua
comune, ma notevole per una gentilezza e
per una grazia che spesso la fanno originale,
Amelia Rosselli ci offre un volume «li novelle
i cui eroi sono, come dice il titolo
del libro, Gente Oscura (Torino-Koma, Gasa
editrice nazionale). Oggi questo amore più o
meno sentimentale o profondo verso i poveri
c gli aiflitti è venuto di moda; e una lieve
tinta di socialismo può rendervi accetti a
molti e, in ogni modo, non nuoce. Socialista
è l’eroe di una deile novelle, / due sogni;
ma mentre egli sogna la nuova donni
operaia, sdegnosa c fiera contro i ricchi, e
dispregia le figlie del popolo che corrono
dietro alla ricchezza, la sorella gli fugge con
un giovane patrizio. Il contrasto è vigoroso,
e reso «jua c là con tocchi efficaci. Ma Ir
migliori di queste novelle sono due 111 cui
non hanno luogo teorie morali e sociali
troppo moderne. Vi è un paesello abitato da
contadini, nel quale non è mai pervenuta
un’orma di passo cittadino. Un giorno, per
un capriccio di un medico condotto, arrivano
alcuni forestieri dalla città, c il villaggio
diviene una stazione climatica rinomata.
Questa è la fortuna del villaggio; dove l’impressione
«lei lusso cittadino c il conscguente
rancor dei villani, c il contrasto fra l’odio e
il desiderio del guadagno, sono figurati con
grande evidenza e con una arguzia clic ha il
inerito di esservi, senza parere. Umile amore
è una storiella graziosa e malinconica: l’amore
di una bimba per un piccolo violinista
celebre; mirrato con molta delicatezza c con
lino squisito senso di femminilità.
Uno scrittore strano, rude, ma senza dubbio
ricco d’ingegno, is il Sig. Domenico Fanelli
ch’io, lo confesso, non avevo mai sentito
rammentare, la prima novella, che «là
il titolo al libro, Donde vengono i raga{(i
(Napoli, Detken c Rocholl), è veramente
un’opera robusta e vigorosa, cui solo nuoce
la forma trascurata pur senza esser comune,
c un amore di certi vocaboli e gesti sudici di
cui si potrebbe tacer senza danno. Vi è narrato
di un collegiale innocente, continuamente
deriso dai compagni poiché ignora i
misteri della gcncra/iono e crede di essere
stato comperato dai genitori a Parigi. La
piccola e rabbiosa libidine dei giovanetti
’ rinchiusi è rappresentata con grande efficacia.
Da ultimo, due di essi spingono T innocente
fra le braccia di una prostituta: e se qui
l’argomento è impuro, l’arte dello scrittore è
robustissima e degna di lode. Le altre novelle
sono d’argomento napoletano. Vi è
molta roba inutile, con lunghi ragionamenti
in cui il metodo dell’associazione delle idee
è condotto tino all’estremo; ma vi è veramente
in molte pagine quella sensual mollezza
del l’aria di Napoli, della bella sirena
lenta e opulenta sul mare.
t Pure da Napoli Salvatore di Giacomo
c’invia un volume di novelle che è senza
dubbio il più notevole fra i molti pubblicati
in quest’ultimi mesi. Nella Vita (Bari, Laterza)
comprende undici racconti che ’sono
tutti, come si suol dire, un brano di vita.
Vi è nondimeno grande varietà nei soggetti
e nei tipi, colti dalla natura ina animati dalT
intima virtù dello scrittore. Salvatore Di
Giacomo è il più fantasioso e appassionato
e delicato dei poeti dialettali.’Nel le sue poesie
napoletane è un’armonia mirabile e una
efficacia di rappresentazione e una schiettezza
di sentimento che non è facile dimenticare.
Nella prosa, all’incontro, egli è più forte e
più rude, e, quando gli convenga, più aspro
die pietoso. La signorina che muor di colèra
su una carrozza a nolo cercando Tamantc
fuggito, ci commuove profondamente: ma Io
scrittore si guarda dal mostrare qualsiasi commozione.
Ne viene che i suoi luoghi e i suoi
personaggi vivono tanto più intensamente, in
quanto Fautore non usa nessun artificio sentimentale
per indurre in noi la pietà. Talora
e mi par strano in imo scrittore cosi conciso’
egli si indugia in descrizioni minute, bellisstme
per sé ma poco adatte al momento e
all azione. II mezzo di queste novelle è quasi
sempre napoletano; i luoghi, miseri o corrotti.
Salvatore di Giacomo ama il suo nopolo
per le sue miserie; e le sue novelle
sono tutte piene di disperazione e di dolore
con qualche accenno di umorismo derivante
più dalle cose che dalla manifesta volontà
dello scrittore. Al quale noi potremmo dire
se non fosse cosa già ripetuta da tanti, ch«.nella
t ita sono anche cose gioconde; c che
il cielo e la terra e il mare fan no intorno
alla sua Napoli un cost voluttuoso serto di
gioia! Questa appassionata gaiezza nap«.lctana
ride e freme un momento in una corsia d’ospedale,
davanti al letto di Quella dalle ciliege.
Ma è un baleno che passa. E una
grande tristezza e una immensa tenerezza
vengono dalla lettura dell’ultima novella,
Cocotte, dove sono particolari descrittivi è
sentimentali di meravigliosa efficacia.
A questo libro non lesinerò certo la lode,
benché esso non provenga da Parigi e s:à
opera di uno dei nostri poveri e disgraziatissimi
c oziosissimi autori italiani. 1 quali
avrebbero virtù c animo di fare, se fossero
incoraggiati. Ma noi italiani siamo e saremo
sempre i più fieri dei nostri denigratori.
Giuseppe Lipparini.
«SIBERIA» Non è la prima volta - purtroppo — di’ io sono costretto a considerare in Luigi Illica, librettista, il pericolo più tenace c più imponibile dell’arte melodrammatica italiana. I suoi enormi difetti di poeta c di drammaturgo, c le sue stesse virtù teatrali congiurano assiduamente al dissolvimento dell* ideale architettura lirica che fu decoro dell’arie nostra nei tempi andati, quando la musica non era, come adesso, cosi umilmente asservita al dramma. All«>rché questo dramma assunse un officio predominante, sia per egoismo artistico e sia per mancanza di vere e vigorose inspirazioni liriche, l’arte dell’Illica fatta «li contrasti veementi, «li brutalità passionali c di stravaganze sceniche pane la più facile forma in cui potessero adagiarsi le non cospicue idee musicali dei compositori giovani. Le mio povertà stilistiche, il suo odio innato per la prosodia, la sua ignoranza di tutte le leggi metriche anzi che allontanare da lui i maestri furono un richiamo lusinghevole, giacché non costringevano quest’aitimi, in gran parto ignari di ogni «lisciplinn letteraria, a eccessivi sforzi mentali c a comprensioni novelle. Ter un buon libretto si richie«levano situazioni gagliarde, nuli’altro: la poesia era un di più; i versi limpidi un ornamento imitile, lo belle imagini una follia da csteti ucchiap|wnuvole. E poiché i molti sapienti critici non protestavano o il pubblico era della stessa opinione dei maestri, il sistema trionfò e Luigi Illica, il più fecondo c volgare tra gli artefici di melodrammi, divenne il più popolare c il più ricercato. Ora, che al pubblico possano assai mediocremente importare le strofe lucide c le imagini ricche si comprende; esse però debbono importare grandemente ai maestri, i quali appunto dai versi debbono trarre l’atteggiamento, il carattere c la misura delle loro melodie, c appunto dalle im.igini deve derivare impeto o grazia ai loro discorsi musicali. La poesia 4 l’anima ed è la sagoma della musica; la scelta dei metri regola i ritmi, c non vi sarà mai resistente melodia so non corra sull’ali di parole armoniose traduccnti, con nobiltà, pensieri e sentimenti diversi. Di nobiltà poetica nei libretti dell’Illica non v’ha la minima traccia; orbene, appunto per tale mancanza essi danno l’illusione, che