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e tornando nella cameretta chiudeva dietro a sè gli usci delle altre poche stanze.

Il marchese era rimasto in piedi, e l’ombra della sua persona proiettata dal lume si disegnava nera e ingrandita su la parete bianca, ingombrandola con la larghezza delle spalle e del torace, toccando la vôlta del soffitto con la testa attorno a cui si sparpagliavano, enormi come tentacoli di polipo, i ciuffi di capelli che egli aveva arruffati con rapido atto delle dita irrequiete.

Don Silvio intanto, cavata dalla cassetta del tavolino una stola di stoffa scura con due crocette di gallone di argento nelle estremità, se la passava dietro il collo, facendone ricadere i lembi sul petto. Tolse dal tavolino il lume, posandolo per terra nella stanza accanto, vicino all’uscio, in modo che la cameretta restasse in penombra; e sedutosi su la seggiola davanti al tavolino e fàttosi il segno della croce, ripetè: — Eccomi! — invitando nello stesso tempo, col gesto, il marchese a inginocchiarsi.

Il marchese esitò un istante. Volgendosi inquieto verso il balconcino contro cui il vento faceva impeto, tendeva l’orecchio all’urlo selvaggio che, imboccato il vicolo, passava rapidamente oltre, seguito da altri ùluli, da altri fischi, da altri stridi quasi umani che passavano pure rapidamente oltre in sinistra rincorsa, lasciandosi dietro un intervallo di morto silenzio più sinistro di loro.