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Don Silvio La Ciura, steso sul cataletto, col naso affilato, con gli occhi affondati nelle occhiaie illividite dalla morte, la bocca sigillata per sempre, come egli si era rallegrato di vederlo, davanti a la cancellata del Casino, tra la folla. Zòsima, con quella bianchezza smorta, con quel sorriso di tristezza rassegnata, che non osava ancora credere alla sua prossima felicità, con quel diffidente — Ormai! — su le labbra, che in quel punto gli sembrava profetico: — Ormai! Ormai!... —

Come avrebbe potuto avere il coraggio di associarla alla sua vita, ora che egli si sentiva alla mercè di una vindice forza, avverso alla quale non poteva nulla?... No, no! Doveva espiare, solo solo, non procurarsi un nuovo rimorso travolgendo quella buona creatura nella inevitabile ruina!

Inevitabile!... Non sapeva da che parte, nè da parte di chi, nè come, nè quando; ma non poteva più dubitare che una parola rivelatrice sarebbe pronunciata, che un castigo gli sarebbe piombato addosso presto o tardi, se non si fosse volontariamente imposta una penitenza, un’espiazione, fino a che non si sentisse purificato e perdonato. Don Silvio gli aveva detto: — Badate! Dio è giusto, ma inesorabile! Egli saprà vendicare l’innocente. Le sue vie sono infinite! — E con l’accento di queste parole gli risuonava nell’orecchio anche il ricordo del vento che scoteva le imposte della cameretta,