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Montoro venne a sbrigare alla lesta, accompagnato da don Giuseppe e da due conoscenti, raccolti per strada, giacchè non era il caso di perdere tempo nella scelta.
Indossate la cotta, la mozzetta e la stola, prima di aprire il rituale che don Giuseppe gli porgeva, il prevosto, cavata dalla tasca della sottana una carta, la presentava, spiegata, al cavaliere.
— È indispensabile!... Anche per mia giustificazione. Bisogna firmarla.
Fu portato il calamaio; e, mentre il malato firmava, il prevosto invitava gli astanti a ringraziare Dio per quella spontanea ritrattazione di tutte le eresie, di tutti gli errori, di tutte le empie dottrine professate con scandalo di tante anime, con corruzione di tanti cuori.
La commovente cerimonia in articulo mortis durava pochi minuti; e il sole, che inondava la camera dalla vetrata del balcone di faccia al letto, la rendeva più triste con la sua luminosa letizia.
Tra i ceri ardenti sui candelabri davanti alle sacre reliquie, nel raccolto silenzio dei pochi astanti inginocchiati attorno alla povera signora che non poteva frenare le lagrime, i due sì parvero singhiozzati, e le due mani stese, una per porgere, l’altra a ricevere in dito l’anello benedetto, furono viste tremare.
— Ego conjungo vos in matrimonio! — pronunciò il prevosto con voce robusta e solenne, benedicendo gli sposi.