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il giorno, egli mandava Titta, il cocchiere, a prendere notizie. Lo atterriva l’idea che la febbre facesse delirare don Silvio, e che nel delirio gli sfuggisse una parola, un accenno!... Poteva darsi!

Smaniava attendendo il ritorno del messo.

— Sei entrato proprio in camera? Lo hai visto?

— Già sembra un cadavere. Non c’è più speranza!

Il marchese socchiudeva gli occhi, un po’ deluso, crudele. Aveva la pelle dura quel prete! E il giorno appresso:

— Come va? Perchè hai tardato tanto?

— Non volevano farmi entrare. Mi ha riconosciuto. Mi ha detto: — Ringraziate il marchese! — parlava con un fil di voce. — Ditegli che preghi per me! —

— Ah!... Poveretto!

Ma, nel suo interno, egli dava un significato ironico alle parole riferitegli da Titta; e così giustificava il rancore che gli faceva desiderare più pronta la sparizione di colui che possedeva il suo segreto, e che era per lui, non solamente un rimprovero continuo, ma un pericolo; o, se non un pericolo, un'ossessione che gli dava fastidio.

E quando udì in Casino (vi era andato a posta per sentire quel che si diceva) quando udì raccontare dal notaio Mazza che don Silvio aveva detto a sua sorella: — Abbi pazienza, fino a venerdì a ventun’ora! — i tre giorni e mezzo che ancora mancavano gli parvero una eternità. Sarebbe stato vero?