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Certe sere, durante la cena, dal balcone aperto, gli arrivava all’orecchio il confuso rumore delle voci che andavano cantando il rosario del Sagramento dietro a don Silvio, in penitenza per la siccità; e alzava le spalle, compassionando quei poveretti che sciupavano scarpe e fiato, ripeteva le stesse parole del cugino, con la speranza che il cielo si movesse a pietà di loro!

E non si turbava più, se udiva nella notte il rauco ritornello cantilenato dalla zia Mariangela:

— Cento mila diavoli al palazzo dei Roccaverdina! Oh! Oh! Cento mila....

Quei diavoli mandati attorno dalla povera pazza, cento mila qua, cento mila là, per tutte le case dei ricchi, gli facevano soltanto rivedere con l’immaginazione la figura della infelice, che portava i capelli tagliati alla mascolina, coperta di cenci, pavonazza in viso pel sangue che le saliva alla testa. Così andava girando per le vie, sboccata ma innocua, quando il marito non la incatenava al muro come una bestia feroce, per costringerla a restare in casa.

Ma poi, appena egli credeva di essere già certo, ridiveniva a poco a poco perplesso. A letto, prima di addormentarsi, in campagna sorvegliando i lavori e dando ordini, nell’andare e venire da Ràbbato a Margitello, o a Casalicchio, o a Poggiogrande, rannicchiato in fondo alla carrozza, tutte quelle storie del cugino, tutte le cose lette e rilette gli crollavano nella mente come un giuoco di carte.