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tato senza indignarsi le empietà del cugino Pergola, e poi le aveva ripensate lungamente, ripetendosi spesso:

— E se ha ragione lui?... Non è solo nel pensare così.... E se ha ragione lui?

Il marchese non si era mai occupato di quelle intricate questioni, come non si era mai occupato di politica, di amministrazione comunale, nè di tant'altre cose che non lo riguardavano da vicino. Doveva badare ai suoi affari, non voleva avere grattacapi per nessuno.

Che gl’importava che fosse re Ferdinando II, o Franceschiello, o Vittorio Emanuele? Tanto, era la stessa solfa: — Pagare tasse! — La libertà? Ma egli aveva sempre fatto quel che gli era parso e piaciuto. Si sentiva meglio di un re in casa sua. Comandava ed era obbedito più di Vittorio Emanuele che non poteva far niente, dicevano, senza il consenso dei ministri. E allora che valeva l’essere re?

In quanto alla religione.... No! No! Il cugino Pergola, con quei libri proibiti, aveva dato l’anima al diavolo. Era protestante, frammassone, ateo; bestemmiava peggio di un turco...

Bestemmiava anche lui, ne conveniva, ma per cattiva abitudine, perchè aveva da fare con gente che non capiva le ragioni, ma le parolacce. E poi, una cosa era il praticar poco la religione, un’altra