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antico amico del poeta e caldo ammiratore del suo ingegno; onde, appena egli seppe della sua venuta, gii mandò incontro alcuni suoi famigliari per riceverlo. Firdusi, ospitato con grandissimo onore in casa di lui, già concepiva il disegno, e già lo traduceva in atto, di comporre un altro lavoro per eternar la memoria del suo nuovo protettore e condannare all’infamia quella di Mahmùd. Ma Nàsir Lak ne lo dissuase, e, avuti nelle mani i versi che Firdusi già aveva composti, li distrusse, promettendo al poeta di scrivere una lettera al Sultano per rimproverargli la sua ingiustizia. Firdusi intanto, animato forse dalla speranza di un mutamento nell’animo di Mahmùd, ritornò a Tùs, alla sua città natia, e là visse qualche tempo ancora con una sua figlia, finchè un giorno, per la piazza di Tùs, avendo udito un fanciullo che per caso cantava questi versi della invettiva di lui contro il Sultano:

Se il padre suo

Regnato avesse, una corona d’oro

Il figlio suo posta mi avrebbe in fronte,

preso da improvviso dolore nel ricondursi alla mente le sue sventure, cadde svenuto al suolo. Di là trasportato alla sua casa, vi morì poco dopo, mentre già toccava l’ottantesimo anno di sua età, nel 1020 dell’Era volgare. Saputasi la sua morte, il Sceicco Abù-’l-Kàsim Gurgàni si rifiutò di recitar sulla sua bara le preghiere dei morti, perchè Firdusi, benchè saggio e sapiente, aveva cantati gli eroi dell’antica religione. Ma poi, come si racconta, avvertito nella notte da una visione, nella quale Firdusi gli era apparso