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sero il giogo e proclamarono indipendenti. Questo fatto però aveva origini più profonde e più intime di quello che potrebbe sembrare, nè esso è dovuto soltanto all’ambizione dei principi novelli, ma bensì anche ad un risveglio potente del sentimento nazionale nell’Iran, specialmente nell’Iran orientale. I principi cominciarono a bandire dalle loro corti la lingua araba che era come il linguaggio ufficiale, per introdurvi la bella e armoniosa lingua persiana, e tosto, volendo ripristinare la gloria degli antichi sovrani del paese, risuscitarono tutte quante le memorie e storiche e leggendarie del tempo antico. In queste memorie la gente dell’Iran trovava la propria gloria, o meglio la gloria di un passato grande e splendido, che, se non si poteva rinnovare, si doveva almeno ricordare, per contrapporlo a tutto ciò che di straniero era venuto dall’Occidente con la conquista degli Arabi. Grande pertanto fu l’ardore con cui i principi del nono e del decimo secolo si diedero attorno per cercar le sparse leggende epiche e raccoglierle e comporne libri, aiutati specialmente da una classe di persone, di cui ora è d’uopo di parlare.
Secondo l’antica costituzione iranica, ogni borgo o villaggio (in persiano dih) era governato da un capo, da un borgomastro, che dicesi dihgàn in lingua persiana. Questi borgomastri erano i legittimi capi del popolo, appartenevano alle più antiche e più nobili famiglie dell’Iran, e molti anche pretendevano di discendere dagli antichi re. Ma avvenuta nel 651 la conquista, quando furono mandati da Bagdad governatori arabi per le città e per i villaggi, questi borgomastri si trovarono immediatamente in conflitto coi nuovi venuti; conservarono tuttavia il possesso delle