Libro negletto, per volgerlo in nostro
Dolce sermon da quelle carte antiche. 455Lungo il cercar, che tutti io ne richiesi
Con infinito ardor. Forte io temea
Del rapido mutar dei fuggitivi
Giorni su in ciel, se forse io non avessi
Spazio di tempo alla grand’opra, e ad altri 460La dovessi lasciar. M’era pur noto
Che serbar molta fè non mi dovea
Quel mio tesoro, chè non havvi alcuno
Che grande e liberal l’altrui fatica
Ami ricompensar. Pien di guerreschi 465Tumulti si volgea quel secol nostro,
E a chi dell’opra sua premio cercava,
Era il vivere gramo. In questa guisa
Lunga stagion passai, nè il mio secreto
Manifestai, che non vedea chi degno 470Fosse di udirlo e amico mio nell’ardua
Impresa si facesse. Eppur, qual cosa
È più dolce nel mondo e più soave
D’un detto amico? Lodanlo i potenti
E in gran pregio l’ha il volgo; e se non era 475Bello e possente dell’Eterno il detto,
Potuto come avrìa l’almo Profeta
Con tal parola farsi a noi maestro?
Nella nativa mia città, pregiato
E dolce amico, io sì, mi avea. Ben detto 480Tu avresti esser noi due quale una sola
Persona e un’alma. Egli mi disse un giorno:
È saggio, è bello il tuo consiglio, e possa
Per glorïoso calle inceder sempre
Trïonfando il tuo pie! L’arduo volume 485Che in pehlèvica lingua un dì fu scritto,
Se indugiar non ti vuoi, pronto son io
Qui a recarti. Piacente hai la favella
E giovinezza hai tu, verbo, gli antichi