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Essendo in Roma, ho tentato di appurare la cosa. Ne ho fatto parlare a due speltabili del Ghetto; ma quando conobbero il motivo che spingevami ad immischiarmi dei fatti loro, i poveretti dettero in ismanie. « In nome del cielo, mi fecero rispondere, non ci compiangete. Guardatevi dal publicare che siamo infelici; chè il Papa duolsi de benefizi del 1847; il Ghetto è sbarrato da porte invisibili, ma insuperabili; ed ora la condizione nostra è, più che mai, peggiorata! Tutto che direte in favor nostro, ricadrà sopra di noi, ed il bene che ne portate, troppo mal ne farebbe!»

Ecco i cenni che mi fu dato raccogliere intorno a questi perseguitati. Poco, ma tutto sugo. Visitai il Ghetto, in cui occulta potenza li tiene, come altre volte, rinchiusi, e vidi il più orribile e più negletto quartiere della città; da che conchiusi che nulla fa per essi il Comune. Seppi che nè Papa, nè cardinali, nè vescovi, ne gl’infimi prelati possono posar piede sul terreno maledetto, senza imbrattarsi di moral sozzura; che l’uso di Roma cosi vuole. E ripensai ai paria dell’India, cui non potrebbe un bramino toccare di un dito, senza decadere dalla sua casta. Seppi che un impieguzzo di qualsiasi natura era inaccessibile allo ebreo, nè più né meno, come ad un animale. Un figlio d’Israele chiedente un posto di spedizioniere in Roma: sarebbe più ridicolo che la giraffa del Giardino delle Piante chiedente una sotto-prefet-