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124 | Matteo Bandello |
LXX.
S’inizia con questo sonetto una coroncina di rime che riguardano luoghi — e ricordi dei luoghi — dove il Bandello peregrinando transita o sosta.
Ecco a Roma Cesare, che raffronta con rimpianto la immensa, ma effimera propria grandezza con la propria tragica fine.
I’ che fui solo ’l tutto, cui fra tanti
Roma trionfo fu, Roma matrigna
Al padre della patria aspra e maligna,
4Che ’l riso mi cangiò in doglia, e pianti;
Cesar qui sono, cui da quattro canti
Del mondo, il mondo, che dal ben traligna
Tremante s’inchinò: con sì benigna
8Man fur da me li miei nemici affranti.
A me più nocque assai la mia pietate,
Che ne’ campi il nemico armato e atroce,
11Ciò che forza non puote, inganno face.
Gli empii, e ferali spirti dispogliate,
Crudi omicidi: a Cesar non si noce,
14Ma Roma seco cade, e ’n terra giace.
V. 1. I’ che fui solo ’l tutto, io che fui tutto ed ora non son nulla. Contrasto potente.
V. 3. Padre della patria dice Cesare; che gli fu poi matrigna.
V. 5. Qui, qui in terra ove giaccio svenato, cfr. v. 14, non sono più il trionfatore, ma solo io, Cesare. Lo spunto è dantesco: «Cesare fui, e son Giustiniano», Parad., VI, 10. — Quattro canti, si dice comunemente dai quattro angoli, dagli estremi confini del mondo.
V. 7. Benigna mano, non abusò della vittoria, e ciò — v. 9 — gli nocque.
Vv. 10-11. Bel verso dal largo respiro il primo, sentenzioso il secondo, con patina d’arcaico; puote, face, può, fa.
V. 14. La caduta di Cesare, coinvolge quella di Roma, che ostentate di voler salvare, o crudi, crudeli carnefici.