speranza! I difetti degli antichi tempi erano già diventati vizi ai tempi di Confucio;1 e la sua dottrina che predicava l’umanità, l’onestà, la giustizia, fu del tutto inefficace a ripristinare l’ordine sociale. La Cina dopo di lui andò di male in peggio. Il filosofo, fattosi storico, volle con la pittura del disordine politico della sua patria mostrare l’abisso, in cui essa stava per cadere; e il disordine invece si mutò in anarchia; ci fu un tempo, in cui l’Impero di Mezzo non aveva più governo. «I popoli barbari dell’oriente e del settentrione, esclama il Filosofo, hanno i loro capi; e il popolo cinese non ha ormai più sovrano!».2 Se la nazione fosse stata già costituita politicamente, e se non vi fossero state più cagioni di temere discordie interne o nemici stranieri; allora la virtù e la giustizia, o le apparenze della virtù e della giustizia avrebbero certo contribuito a render più solide le basi della società e dello Stato. Ma in quel tempo i molti principi de’ piccoli reami della Cina non avevano utilità di mostrarsi virtuosi, nè timore di apparire tiranni; volevano solo soverchiarsi a vicenda con la forza per usurpare il potere supremo, o almeno ingrandire i proprii dominii. Le dottrine di Confucio erano come semi buttati dall’alto, in tempo di gran tempesta: trasportati dal turbine, non arrivavano in terra, e non potevano germogliare. Venne però un uomo che preparò il terreno; e al quale la Cina dovrebbe tanta venerazione, quanta a Confucio stesso. Costui, è vero, trucidò i letterati, bruciò i libri, distrusse le scuole; ma fece l’unità dell’Impero cinese: e passata la bufera politica, e tornata la calma, la filosofia e le lettere poterono fare la loro opera di civiltà
- ↑ Lun-yü, xvii, 16.
- ↑ Lun-yü, iii, 5.