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192 | parte prima |
dalla morte»; ed è infatti in opposizione a mata che si trova adoprato nel citato versetto. Laonde il D’Alwis, di cui sono le considerazioni che ho riportate, traduce il passo riferito, di sopra nel modo seguente: e, per quanto meno letteralmente che non faccia Max Müller, rende però il concetto buddhico giusto ed esatto: «Reflection leads to the lot which is devoid-of-death, and thought-lessness to that which is (ever susceptible of) death. Those who reflect do not (enter the condition liable to) die: but those who are thoughtless are the same as those who are already dead».1
Un passo poi che non può lasciare alcun dubbio sul valore della parola amata, è il seguente, anch’esso tolto dal Dhammapada: «Coloro che si mettono a meditare profondamente intorno all’origine e alla distruzione degli elementi della esistenza (ossia dei cinque skhanda), si faranno un’idea della felicità, della gioia di chi è giunto alla conoscenza di ciò che è amata (ossia della condizione ove non è morte, del Nirvâna)».2 Ora abbiamo più sopra veduto, come per la distruzione dei cinque skandha si rende impossibile qualunque specie d’esistenza; perciò saremo costretti naturalmente a prendere, in questo passo, la parola amata nel senso primitivo della parola nirvâna. La quale d’altra parte, implicando l’idea di una condizione al di fuori del circolo della trasmigrazione, dove non è vita, viene a significare precisamente lo stesso che amata, vocabolo che indica una condizione ove non è morte, cioè dove la morte non è possibile nè concepibile, perchè non vi è vita nè esistenza di sorta.