Questa pagina è stata trascritta, formattata e riletta. |
186 | parte prima |
morte, delle malattie, del dolore, del pianto, della angoscia».1 La felicità non sta che al di fuori del domìnio della trasmigrazione, là dove non è moto, nè vita, nel Nirvâna. Esso non è l’assorbimento in Brahman o altra divinità, perchè i Buddhisti non riconoscono un essere superiore e increato; non è la Natura, perchè non la divinizzano come i seguaci di altre dottrine, non è finalmente una forma qualunque di vita dello spirito, esente dalla trasmigrazione, perchè colla distruzione dei cinque skandha si distruggono e si disperdono anche tutti gli attributi dello spirito, che sono una condizione della sua vita. Questa ultima ipotesi inoltre sarebbe tanto meno ammissibile, inquantochè, secondo gli insegnamenti di Çâkya, non solo ogni umana passione è causa d’angoscia quando non sodisfatta, e di sconforto e disinganno di poi; ma anche risguardandosi come cagione di dolore qualsiasi operazione dello spirito, la calma non può essere conseguita dall’uomo, se non con la estinzione e distruzione dello spirito stesso. Il Nirvâna dunque è l’opposto di moto, l’opposto di vita, l’opposto di esistenza; esso è la quiete perfetta, la morte assoluta, la non esistenza, il Nulla.
I popoli, presso cui fu introdotto il Buddhismo, traducendo la parola nirvâna, la interpretarono più comunemente «liberazione dai mali dell’esistenza», «perpetuo godimento di quiete», «estinzione», ecc. In Tibetano è resa Mya-ngan-las-’das-pa, ossia «[stato che è] oltre il dominio dei dolori della esistenza»; da mya-ngan, «miseria», specialmente delle creature che vivono sotto l’impero della trasmigrazione,2 e ’das preterito di ’da’-ba «trapassare», «andar oltre». Nelle scritture mongoli-
- ↑ D’Alwis, p. 37-38.
- ↑ H. A. Jaeschke, Tibet. and Engl. Dict., p. 90.