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180 parte prima

mino fra i piaceri dell’esistenza».1 — Gli uomini del volgo, o meglio tutti coloro, in cui i bisogni della mente, del cuore e dello spirito sono di molto limitati, non sentono, nè possono sentire gran fatto il peso di quella infelicità, di cui Çâkyamuni vide ripieno il mondo intero. Il volgo vive in questa atmosfera di mali, abituato a sopportarli con la pazienza proverbiale degli animali da soma. E come il condannato preferisce la vita che mena nel suo angusto e fetido carcere, non solo alla morte, che viene a liberarlo da quella sua miserabile esistenza, ma anche alla gloria eterna del paradiso, che un pio sacerdote gli promette, aiutandolo a salire il palco fatale; così il volgo, sia esso di stirpe Mongolica o Indo-europea, preferirà sempre la vita, per quanto infelice, alla morte, anche se quella sia strada ad una vita nuova di felicità perpetua.

Il Buddha conosceva tanto bene gli uomini da accorgersi che quella sua dottrina sarebbe riuscita generalmente poco accetta alla moltitudine; la quale difficilmente si sarebbe resa padrona del vero e giusto concetto, che egli, Buddha, se ne era formato. Il solo fine di Çâkyamuni fu di inculcare ai suoi uditori, non essere la esistenza che una congerie infinita di miserie; e additare, come mezzo di liberazione, il Nirvâna, non perchè consentaneo alle opinioni della comune degli uomini, nè per lusingare l’animo volgare della folla, ma come necessaria, ineluttabile conseguenza del suo sistema.

Çâkyamuni insegnò pertanto ad amarsi come fratelli, a fuggire il male, a non darsi al vizio, a fare insomma ogni sorta di bene. Ma siccome sapeva anch’egli che l’uomo in generale non fa nulla per nulla, e che una ricompensa


  1. Dhammapada, 85.