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parte prima | 179 |
III. Finalmente il venir narrato, che il Buddha, dopo che fu entrato nel Nirvâna, riapparve di nuovo nel mondo ad ammaestrare i suoi discepoli.
Esaminiamo ora per ordine ciascuna di queste tre obiezioni.
I. Fare il bene pel bene, praticare la virtù per la sola ragione che essa è buona a praticarsi, amare gli uomini solo perchè ci sono fratelli nella sventura, non basta; si ha da fare il bene, praticare la virtù, amare gli uomini per avere il cento per cento e più di frutto nel mondo di là. Non è dunque facile il credere, si dice, e da ragione, che una dottrina, la quale promette in ricambio del bene operare, che tanta fatica costa all’uomo, l’annichilamento compiuto della propria esistenza, sia stata accettata, e con aggradimento accettata, dalla metà del genere umano. Vi può essere, è vero, qualcuno che, come il Voltaire, dica in un momento di malumore: «On aime la vie, mais le néant ne laisse pas d’avoir du bon»; ma la generalità dei mortali preferirà sempre al nulla qualsiasi specie di esistenza.
Quantunque, come s’è veduto, l’esistenza sia dai Buddhisti considerata sotto un aspetto (falso, se si vuole, ed esagerato) che non è il nostro; pure anche il Buddha si accorse, e lo confessò, che la sua teoria sul Nirvâna non poteva essere appieno intesa, e, dirò così, gustata, se non da pochi eletti. «La mia dottrina», egli dice, «è profonda, difficile ed ardua a intendersi: sublime, e degna solo di essere conosciuta dal savio».1 E in altro luogo: «Pochissimi uomini, dice, conseguiranno il Nirvâna; la più gran parte continuerà il suo cam-