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parte prima 173

di difendere il Buddhismo, già troppo compromesso come sistema ateistico, dalla mostruosa dottrina di coloro — «Che l’anima col corpo morta fanno» — vorrebbero che si intendesse per Nirvâna una forma di esistenza qualsiasi, possibile dopo la morte.

In una questione di tal natura, che consiste nella interpretazione diversa di una parola, la quale si trova le mille volte ripetuta dalla prima all’ultima delle numerosissime e svariate scritture canoniche, devesi in primo luogo avere in mente, mi sembra, la immensa tolleranza di opinioni filosofiche e religiose, che è propria del Buddhismo; tolleranza che gli ha permesso di svolgersi in molte forme diverse, le quali però si riconoscono come uscite da un medesimo stipite. — Çâkyamuni, nella sua predicazione, si occupò tanto poco del Gran Brahaman, l’Increato, l’Onnipotente, che questa suprema divinità sparì dal luminoso suo trono e lasciò il Buddhismo ateo. In questo sono d’accordo i più autorevoli orientalisti e mitologi, che si occuparono della religione di Çâkya. Ciò non ostante qualche scuola metafisica, nata più tardi, rivendicò una suprema intelligenza, un Dio creatore e formatore dell’universo: e così fu ancora per altri dommi di minor importanza, non ammessi o sconosciuti dal primitivo Buddhismo; per modo che si andarono man mano formando una moltitudine di sètte scismatiche. — Ma, strana cosa per noi, gli uomini che professano queste varie credenze, non solo si tollerano anc’oggi a vicenda, di una tolleranza, di cui non ha idea il mondo teistico occidentale, ma non sdegnano di chiamarsi fratelli nel nome del Buddha.

Non è dunque da maravigliare, che una parola adoprata da tutte le scuole buddhiche per chiamare il destino finale dell’uomo si presti ad interpretazioni diverse