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MENSILE Le edizioni del Barelli Casella Postale 472 TORINO ABBONAMENTO per ii 1926 L. 10 • Estero L. 15 • Sostenitore L. 100 • Un numero separato L. 1 • CONTO CORRENTE POSTALE Anno III - N. 9 - Settembre 1926 Fondatore: PIERO GOBETTI SOMMARIO: A. MONTI t O. Fortuaalo. Iradullor* di Oroilo - RILKE t Orfto - 0 A LATI: Croc«allo «pacchio - P. OOBETTI- Rlaorglmcato «aula «rol - M. OROMO: Il («atro o la cxlllca - Noi*.

Giustino Fortunato traduttore di Orazio Giustino Fortunato rilegge Orazio Sicuro: Giustino Fortunato traduce Orazio.

0, più precisamente, Giustino Fortunato, noil’estate uel ’23, tradusse di Orazio in prosa italiana Irentadue odi trascelto dai quattro libri, otto del primo, sette del secondo, quattordici del terzo, tre del quarto, più il Carme secolare; propose alla traduzione, a mo* di prefazione, una lettera al nipote Alberto Viggiani; pubblicò già la lettera sulla Nuova Antologia del 1G Agosto 1924; ha pubblicato ora, od ha lasciato pubblicare, pei tipi del Cuggiani di Roma, in una aristocraticissima edizione, la letteraprefazione o la versione, col titolo complessivo «Rileggendo Orazio» (1).

E come andò che Giustino Fortunato, proprio ai compiere del suo settantacinquesimo anno d’età, si poso a rileggere Orazio, o d’Orazio tradusse quel che s’è detto, o intorno ad Orazio scrisse quelle quaranta così belle pagine!

Andò così.

Appunto in quell’estatc del ’23 ora capitato in maqo a Giustino Fortunato, donatogli dall’autore, suo antico o sconosciuto ammiratore, un libro in cui, fra l’altro, ai parlava del modo di leggere c di far gustare Orazio in una moderna scuola classica italiana. Come succede talvolta ohe piccola favilla gran fiamma secondi, e elio da un fuggitivo accenno in una da8uale lettura altri sia tratto a ricercare, di impeto, impazientemente, un altro autoro domestico già e frequentato ne* tempi andati e poi riposto e lasciato quasi in dimenticanza, o che a quell’improvviso ritrovamento dallo pagiho disperse di quel libro si levino a sciame avanti al lettore tanti cari ricordi dei tempi in cui primamente quel libro si lesso o si trattò, così appunto avvenne a Giustino Fortunato il giorno che un capitolo del libretto giuntogli in omaggio gli ridestò nel cuore la nostalgia di Orazio, di cui da tanti mai anni più non aveva riletta una sola pagina, e con quella nostalgia, il desiderio, vivo pungente impaziente, di riprendersi fra mano il Poeta, e di rileggere, di rileggere.

E rileggendo, ecco le prime odi lette da lui:

lo odi. tradotto, in una col fratello Ernesto quand’eran fanciulli, compilando e costruendo sotto la non acerba ferula dello zio «nell’anno di felice interregno, tra due collegi napoletani de’ gesuiti o degli scolopi... dal ’60 al ’61»; le odi mandate a memoria so pur non inteso appieno; e l’improba fatica ricompensata con una «mezza piastra borbonica d’argento» por ciascuna odo ben- recitata, elargita dall’affettuosa munificenza dello zio carissimo, che «portava il nome d’un suo prozio vescovo, si vantava classico nel pensiero, illuminista o razionalista nella pratica... recitava, parola per parola, Orazio o Tacito... aveva assai spesso su Io labbra i nomi del Locke o del Bayle... o in permanenza, au lo scrittoio, uno o l’altro volume del Giannonn». E il bell’Orazio del Bindi, libro di testo al Convitto di San Carlo allo Mortollo in Napoli, ove si scendeva dopo esser venuti da Rionero a Eboli «con propria carrozza o Io sonaglioro a’ tro cavalli e una equestre soorta d’armati», o dove i giovinetti «napoletani» scontravano, dopo quel ’60 — l’anno dei miracoli — altri giovinetti venuti più di lontano, i «siciliani», più numerosi i continentali, più «pronti o maneschi* gl’isolani, e le duo schiero non cran, nò potevan esser, amiche fra di loro, corno non eran nò gli uni nò gli altri amici dol nuovo ordine di cose. ma la convivenza, i comuni studi, fmivau con rabbonirli fra loro, come la lettura — non più vietata — dolio Mie prigioni e della Battaglia /li Benevento conciliava gli uni e gli altri con la «causa liberalo» o li induceva ad abbracciarla con novo forvoro. E Venosa, dov’era la casa della mamma di Giuslino Fortunato e dov’cgli veniva fanciullo in vacanze accarezzato coi fratelli dalla nonna c dagli xii. E i monti di Puglia «quos torrct Atabulus», disseccati dall’Aitino, noti e cari anche a Giustino Fortunato; o il Volturo dallo setto cimo, per lo cui selve si smarrì infanto Orazio, o la cui storia amorosissimamonte ricostruì il Fortunato, vallo por vallo, castello por castollo, età por età. Puglia o Basilicata «le duo amiche regioni continenti a’ piedi del Vulturo», in cui più a lungo durò, fra la genio colta, il culto d’Orazio, già così largo e vivo fra i meridionali dello ultime generazioni del ’700 o dello primo dcll’800, come no fecero fede por un j>ezzo citazioni e iscrizioni sparso dovunquo per le ville di quoi luoghi da Rionero al Castello di Baia, dall’Irpinia alla marina di Taranto, ma venuto scadendo man mano no’ tompi più recenti, in cui la barbarie della gente nuova s’ò accanita contro quo’ marmi e quelle scritto non più intese o neglette, o buttato come inutili ingombri. E la «giovanile impresa»

di Giustino Fortunato, deputato del Collegio di Orazio, che, postosi in monto di far sorgere un monumento al Poeta nella natia Venosa, fra traversie o difficoltà d’ogni sorta, jjcrsiaté nel proposito, eroicamente, per bone un decennio, dall’89 al ’98, fmchò non la spuntò, e Venosa vi^c, raffigurate dal D’Orsi, le sembianze dol suo poota, o il fautore pertinace od instancato dell’impresa magari si sentì dire nella circostanza da qualcuno: «che la statua non somigliava o che un si gran poeta mica poteva ■ essere tanto piccolotto». E i colloquii oraziani a Roma in casa di Don Tgnazio Ronconipagni Ludovisi principe di Venosa, presenti lo Hclbig e il Mommsen, sir Rcnnel Rodd o monsignor Duchesne, quundo ad ogni momento ricorrevan noi discorso citazioni di Orazio fatte con pronunzia più o mono perfetta, più o mono ini ni.

ligibilu dai tedeschi, dall’inglese, dal francese, o, preso l’avvio, il discorso si snodava, dagli orrori d’Ulisso in vista delle coste italiche allo guerre sanniticho o magnogreche, dall’iter brurr disinum a Federico II «che tanto più di Orazio predilesse o favorì il Vulture», dal IX volume del Corjiut inscriptionum al vino dclli Castelli, dall’antico al nuovo, dal Romano al Romanesco, con mutuo diletto e beneficio d’ognuno.

Questi ed altri ricordi risuscitavano nella monto di Giustino Fortunato in quei giorni di canicola’napoletana in cui il gran vecchio, solo nella sua casa di via Vittoria Colonna, si rileggeva, dopo tanto, il suo Orazio. Orazio al centro c all’inizio de’ suoi pension, Orazio e le liriche sue; ma il pensiero va da Orazio a Venosa, da Venosa alla Puglia c alla Lucania, dal Mezzodì all’Italia; all’Italia tanto veracemente amata da t»on Giustino perchè da lui tanto realmente conosciuta: quell’Italia che coincide ancora geograficamente con l’Italia Auguatca, ma che è purtroppo una cosa ben diversa da quella, quel vecchio c martoriato paese, povoro economicamente c ancor più povero moralmente, su cui domina o grava ognora prepotentemente «il peso della eredità — la vera, che ò tutt’uno co’ delieta vtajorum, non la falsa, che si ammannisce nelle scuole — quella che risai© alla pervicace indole sia de’ Comuni sia delle Signorie, lo uniche produzioni spontanee del nostro spirito,per cui non mai comprendemmo quel che fossero, per davvero, o libertà e democrazia».

Questo riflessioni e questi ricordi Giustino Fortunato consegna allo carte mentre rileggo e ritraduce Orazio, o se ne apre col giovino nipote, scrivendogli la lettera che formerà la prefazione del nuovo lavoro: non predica di «brontolone ed inerte», mainò, ma vivacissimo e interessantissimo capitolo di storia d’Ttalia, corno tutte le mirabili monografit del Fortunato, in cui la ricerca sull’argomento minuto — pure perfetta in sò di rigoro e di documentazione — è sempre essenzialmente un pretesto per intcssere attorno al tenue nucleo un capitolo di storia del Mczzolì c dell’Italia, e per dare ai lettori una iudimcnticabilo lezione di serietà di austerità e ii italianità.

Genesi e pregi d’una traduzione letterale Seguono alla prefazione le trontadue odi tradotte o il Carme. Proprio quello trentadue già detto e non altre, perché esso appunto formarono l’antologia dolio zio classicista o razionalista, preferite allora da lui o per la «’breve perfeziono loro» o per gli accenni olio contengono «del comun luogo natio*: il Cnrmo Secolare in memoria di quel pomeriggio di dicembro del ’90 in cui a Roma in una barnechetta di là da ponto Sant’Angelo il Barnaboi mostro al Fortunato, chiamato apposta in fretta da Montecitorio, il lungo frammento d’iscrizione allora allora scoperto, su cui eran visibili e testuali parole: Carmen composuit I*. Il oratius Flaccus.

La traduzione, come insisto a dire anche il mmtiapizio, ò» letterale», o pare cho il traduttore particolarmente ci tenga a questa particolarità dell’opera sua. Discorrendo nella narrata occasione col nipote circa il modo di tradurrò Orazio, aveva sostenuto il Fortunato «possibile il faro una traduzione letterale di Orazio, non del tutto inadeguata alla efficacia ritmica del testo, a condiziono di serbarle, noi miglior modo, la costruzione latina»: il nipote pensava altrimenti: dal dibattito ecco nata nello zio l’idea di tentar praticamente la prova secondo l’idea sua: la discussioncclla avveniva alla vigilia della partenza del nipote per la villeggiatura; il quattro di settembre, compleanno dello ’io, 1© trentadue odi col Carme eran tradotte, • partiva da Napoli, con la versione, la bcllisiima lettera che dianzi ho malamente sunteggiata.

Pare di raccontar la genesi di certe famose versioni cinquecentesche da Virgilio o da Tacito.

E io ritengo cho Giustino Fortunato abbia egregiamente superato la prova non facile.

Ricordate della 13.a del U, quolla doll’alboro, il Lo periodo, da «lite et nefasto te posuit die»

imo a «in domini caput immerentisl» Ora ecco quel periodo nella versione di G. F.: «Quegli, e sia chiiinquo, che in un di nofasto te piantò per il primo, o con sacrilega mano ti crebbe, o.ùbero, a’ danni de’ nipoti o ad obbrobrio del.’.’Maggio, di suo padre io inclinerei a credere che abbia rotto la cervice, © di notturno sanguo de’l’ospito cosparse lo segrete stanze; quegli i veleni Còlchici maneggiò, od ogni misfatto (commise) cho dovunque concepir sia dato, il qualo te, o pianta malefica, pose nel mio podere, lo cho stavi per cader sul capo del padrone, immeritevole!». Anche nell’italiano il periodo serba il respiro suo ampio, dal primo «quegli» (i’Ile et nefasto) alla pausa dopo l’orrore dell’ospitalità violata a e di notturno sangue dell’ospite co* s/xirso le segreto stanze» (et penetralia, sparsi ss e notturno cruore hospitis): dalla ripresa del secondo «quegli» (We venena Colc/ia) fino all’arresto enfatico sul pensiero del pericolo appena sfuggito «te, che stavi per cader sul capo del padrone, (respiro) immeritevole!» (te.eaducum — in domini caput (cesura) immerentis).

Il segreto pregio di questo periodo nel tosto ò, se non erro, nell’enfasi alquanto esagerata con cui il poeta dà sfogo al suo corruccio, un poco vero e un poco finto, contro l’albero e contro chi lo piantò a suo gratuito eccidio: orbene si guardi la versione, la si confronti col testo, e si vedrà che quest’enfasi è non solamente mantenuta nella sonorità dello parole e nell’ampiezza delle volute sintattiche, ma anche e stata — Tome si conviene in una versione, che ha da essere insieme dichiarazione e commento — un pochino accresciuta e calcata, con quel legamento por subordinazione che nella versione, più latina qui dol latino, fa tutt’un periodo, da «quegli» a «stanze», delle duo primo strofe latino da «die» ad akospitis», lo quali nel testo son tra loro connesse solamente per coordinazione asindetica.

E il famoso inizio del noto poemetto lirico sull’Angusto, chi non l’ha in mento 1 eOdi profanum volyus et arceo - Favete linguist: non esordio d’un carme, ma piuttosto introibo d’una messa, tanta jeligiosa austerità vi spira; o come bene l’ha inteso e. reso lo straordinario traduttore:

«Odio il profano volgo,e da ine via lo scaccio. Silenzio voi fato; sacerdote delle Muse, versi non mai prima uditi io canto, per le vergini © pei fanciulli». E più oltre, in quella stessa alcaica, ricordate descritta la persecuzione implacabile disperata del Timor, delle Min a e della Cura.accanito contro i grandi sSed Timor et Minar — scandunt eodem quo domimisti Ed ecco la versione: «Ma Paura o Minacce (pur) montano ul posto stesso dov’ò il padrone, dacché neanche dalla trireme rivestita di bronzo si parto mai, o sempre siede, in groppa al cavaliere, il nero Affanno!»

Traduzione letterale, va benissimo, ma di una «letteralità* che ò tale sol perché trascende, pur comprendendola, la lettera, 6 giungo, sempre, allo spirito dol tosto; traduzione letterale anche, io direi speciulmonte, Jà dove talora si stacca dalla lettera....» Serbare (alla traduzione), noi miglior modo, la costruzione latino», questa la norma eh© s’ò proposta il traduttore: scnonchè gli succedo talora di essere, nel tradurre, magari più latino del latino stesso, o di dar naturalinonto al suo italiano una piega ed un sapore tale da far dire i chi leggo che si tratta di un classico cho traduco un altro classico. Du© esempi: Sed otnnes una manet nox - et calcando semel via leti • universalità (otnnes una) o irrevocabilità (semel!) del destino di morte (nox, via leti, con nel tosto, come sigillo, in fin del periodo ritmico o sintattico non un vorbo ina un sostantivo); o G. F. tra duce: «Ma tutti una medesima notte attende, e una sola volta si dee la via della morto calcare»:

con alla clausola, non l’idea della notte e della morto, ma l’azione dell’insidi&re o dol fatale camminare, o quindi i verbi, latinamente, in fin di proposiziono: «Baro antecedentern scelcstum — desrruit pede Poena dando»: anche qui Fincombore d’una giustizia punitrice fatale e certa, sraro... deseruit» lo paiolo essenziali; di cui una difatto Orazio pone al principio, e la seconda, il verbo, a metà del periodo anziché alla chiusa; ed ecco il classico italiano, a correggere il latino:

«Rare coltela. Pena, (pur) zoppicante col piedo, si lasciò l’empio, che la precedeva, sfuggire»:

trasgredita é, un poco, la norma della conservaziono della costruzione originale, ma non mai traduzione fu più felicemente fedele al testo di questa.

Io non ho qui, per far raffronti, altre traduzioni recenti di Orazio elio siau opora di dotti e di filologi «specialisti», ma credo di poter dir senz’altro, per la pratica cho ho di questa materia, cho pochi dei nostri «professionisti» dell’interpretazione doi latini han saputo con tanta elegante sicurezza risolvere i problemi che ha risolto, nel suo saggio, ii novissimo «dilettante»

traduttore di Orazio. Como puro è ammirevole la sicura facilità con cui il profano di Studi filologici, districa, al lume del rigoro logico, dell’informazione — e del buon senso — alcuni dei minuti problemi di biografia oraziana che «han dato la stura allo più ameno stramberie de’ posteri indovini»: «Orazio fu lucano o pugliese»t e quel «Vulture in Apulo...

extra Unico A puliae»? o la «ubicazione della misteriosa vena d’acqua do’ bantini balzi»? Bisogna vedere come il Fortunato si diverto ripensando agli «stupefacenti arzigogoli... di non meno stupefacenti chiosatori», e con che sicurezza si orienta verso la vera soluzion del quesito, attingendo i dati non da arzigogoli o stramberie, mo, come si deve, dalla sicura conoscenza del mondo in cui visse il poeta, del mondo topografico, il nodo del Vulture dallo sette cime al limite delle duè terre, e del mondo sentimentale di Orazio «l’accorata tristezza, pur nell’apparcnto sorriso delle labbra» così intonata alla «povertà di colore e al silenzio pesante» dello terre lucane solitarie o malinconiche.

Quando s’incontrano in una partita d’armi un militare ed un borghese ho già fatto tanto volte l’ossorvaziono che chi rimane soccombente è di regola proprio quello che di trattar le armi fa professione: quando, su questo più tranquillo campo dcll’intorpretaro un autore e del porlo nella sua vera luce, si provano due studiosi, di cui uno sia accademico professionista e l’altro sia nicnt’altro che un signore il qual© ama quegli studi, sempre chi ci fa la peggior figura è il professore, e chi indovina e risolvo ò quoll’altro, il signore oxtra-accadcmico.

Il vero Orazio.

Chi sappia come Giustino Fortunato scriva no’ suoi libri u nelle suo lettere, quasi eofbendo nella forma composta, nella parola egregia, nella frase un po’ togata l’inesausto tumulto degli affetti che gli fervon dentro, troverà del tutto naturalo che sia riuscito così facile a Lui il trasferire nel suo italiano agile insieme © soldino l’impcccabilo latino delle liriche di Orazio.

Ma non bastan lo formali coincidenze dol dettato a spiegare l’adesione della versione al tosto; bisogna, per ciò, andar un poco più iu fondo.

Che note essenziali dell’arte oraziana, siano l’equilibrio, la composta dignità, la misura, l’ordinata intolligcnza e indulgenza delle passioni umano, il contegno sereno fra In coso avverso, ò cosa questa assai risaputa: corno pur© è noto come l’ideal di vita cantato da Orazio sia quello del s fruì paratie» dol «vivere parvo bene» del sdesiderare quod satis est» della esegeti» certa fìdes», cioè del tender© sì alla sicura stabilità d’uiia vita mediocre, ma di tenero ben presento intanto cho unico modo di