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il baretti 97

Lettera di Silvestro Gallico ai suoi amici sui libri che legge n.

A Carlo Leni.

Come (In tre mini il capriccio del caso ci ha tenuto lontani, te ufficiale medico a Firenze prima cd ora tra Rii alpini sul Monccnisio, me confinato qua tra cure molto mollo meno guerriere ahimè! e più* dense di noia, nell’uggia di questa antica nobile e silenziosissima città dove mi tocca vivere: così 10 non so se tu sin ancora quello d’un tempo:

bene armato, ben provvisto c ben corazzato, come quando, seduti al rezzo sul pendio erboso delle nostre colline torinesi si trascorreva i lenti e dolci pomeriggi primaverili declamando le odi di Orazio e giocando a chi più* ne sapeva recitare a mente, o (piando ad ingannare le lunghe immobili ore di posa, mentre tu inseguivi col pennello sulla tua tela le lince c gli atti di ine che ti sedevo innanzi con un’edizione settecentesca di Lucrezio chiusa tra le mani, s’aprivan fra noi discussioni laboriose cd interminabili sul valore e la gloria di questo o quell’antico poeta (una me ne ricordo, che mi piacerebbe riprendere, sui versi di Parini, oggi che è di moda sparlarne), ed io t’iniziavo alla lettura dei classici francesi materni, descrivendoti i mici ardori per Montaigne o per Bossuet, c tu me a quella anche più’ veneranda ed augusta di Omero, commentandomi sul testo greco 11 discorso d’Ulissc a Nausica. Non so se tu sia ancora quello d’un temj>o: ma se le nuove fatiche non t’han mutato nemmeno in parte, non vorrei che tu ti dovessi scandalizzare vedendomi, abbandonati quei solenni parchi e quei |>oggi ariosi e qjuello fiorenti vegetazioni, sceso ahimè! a scorazzarc nelle magre praterie della letteratura contemporanea. Avresti torto, perch’io son rimasto, credimi, quello d’allora. Avendo letto Virgilio cd Ariosto prima d’accostarmi a questi perdigiorno de* nostri tempi, anche volessi, non me ne saprei dimenticare. Così avviene che |>crsino tra i libri più’ moderni c danzanti c salottieri mi accompagni un nobile pessimismo e la ripugnanza di certa sparuta e facile mediocrità, che mi derivano da quei lontani gusti della mia adolescenza c mi condurran forse a salvamento attraverso terre pur così difficili c piene d’ogni sorta di pericoli.. Ti devo confessare che, leggendo in questi giorni un numero dell’Italiano, «rivista settimanale della gente fascista», mi son sentita in cori>o una certa simpatia per cotesti beceri ammantati di retorica, i quali si propongdno di dar fuoco alla Fiera letteraria c a tutte le baracche di Mondadori, e sanno allungare intanto di così buoni ciottoli nelle reni a Bontempelli, ad Orano e magari ad Ojetti. Nelle ire c nella ferocia (un po’ a freddo, è vero) di questi «giovinastri» di Bologna c di Firenze la nostra adolescenza appartata e misantropa •*; riconosce almeno in parte. Non del tutto, perchè a noi non sarebbe piaciuto chiamarci giovinastri neppure per metafora, e come non amiamo i parassiti così neppure vogliamo saperne di beceri, peggio poi se lòtterati. Comunque un senso di stanchezza c di nausea dell’aria stagnante e morbida che ci sta intorno è anche in noi: c vorrei che desse il tono a queste mie cronache remote spaesate e ritardatario.

Per dimostrarti meglio l’animo antico con il quale io vado parlando, a voi amici, di queste cose recenti: a te, mio Carlo, voglio raccontare le esperienze c le scoperte che mi avvicn talora di fare presso i librai antiquari di qui. Ti ritomcran forse alla mente certe nostre frequenti passeggiate tra i banchi di libri di piazza San Carlo e le visite che quasi ogni giorno facevamo ai negozi di Pregliasco e di Bourlot, un po’ timidi c combattuti fra l’avidità di comperar molte cose e le possibilità ahimè! tropi>o scarse della nostra borsaSebbene speri di non diventar mai un bibliofilo, tuttavia dall’ansia avida e cupida di quei giorni* m’è rimasto il piacere che provo ancora di tanto in tanto d’andar rovistando fra gli opuscoli sgualciti e la ixdverc che ricopre abbondante i dorsi di pelle slabbrati è tarlati,c il gusto di sfogliare i bei cataloghi, dove ogni numero quasi acquista un doppio interesse c una mirabile individualità, per merito del libraio che, mostrandocene nelle sue note la rarità e la preziosità, intesscndo tra riferimenti bibliografici lo splendido elenco degli ex libris illustri, offrendoci magari qualche riproduzione in fac-simile delle incisioni più’ belle, cc ne ricrea come per miracolo la figura singola e la storia antica e gloriosa.

I/incontro dei libri di scrittori moderni tra una copia degli Annali del Baronio c una del Muratori è sempre per varie ragioni istruttivo.

Perchè ora trovi dei volumi presso chè intonsi, da pochi giorni usciti alle starnile, e subito pensi al candido borghese clic non vi ha dedicato noppur quel minimo d’attenzione a cui la tua manìa letteraria ti ha, sebben ripugnante, costretto c, avendoli comperati per ingannare la noia d’un viaggio in treno, vinto ben presto da più grande noia, se n’è liberato appena c come meglio ha potuto.

Altre volte, incontrando le rozze cd incolte edizioni dei nostri giorni presso quelle linde ed accurate degli antichi, e le raccolte di prose liriche affiancate alle antologie degl:

illustri poeti, c i nomi piccoli cd oscuri accanto a quelli grandi c famosi, ne trai argomento a meditare sulla decadenza degli umani costumi. E sempre poi ti è offerta occasione di constatare anche una volta, non so se con più’ letizia o tristezza, la caducità provvidenziale delle cose terrene.

Qui in provincia, dove mi trovo, siffatte scoperte hbrarie sono rare e di |>oco rilievo.

Non mancano perù del tutto. Qualchevolta il nome che sta nell’alto del frontispizio è quello d’un autore già caro c gradito, e allora la vicinanza e il contatto di tante cose vecchie gli aggiunge alcunché di venerabile c di lontano nella nostiu memoria. Non è questo»1 caso certamente del primo libro del quale ti voglio oggi parlare. Del quale è meglio dir subito anzi che l’ho comperato piuttosto per curiosità che non per gusto o diletto. Si tratta delle Poesie scritte col lapis di Marino Moretti, edite dal Ricciardi di Napoli, con dedica autografa dell’autore: «A Corrado Covoni, — per la comune solitudine. — Cesenatico, 1920». Che queste liriche siano per noi oggi d’un interesse molto mediocre, è naturale.

Eppure la musica cadenzata c nostalgica delle loro strofe esce fuori da onesta già vecchia edizione non priva d’una suggestione, che non è estetica, bensì erudita c storica, come d’una stampa del 1700 clic le tracce c le pieghe del tcni|>o ci fan cara, quand’anche essa sia per sè brutta od insignificante- Ne vicn fuori con l’incanto delle cose vecchie e la tristezza delle cose morte tutto un periodo delle vita letteraria italiana, con i suoi modi c le sue mode, periodo che le date premesse al libro indicano in modo almeno sommario: 1905-1909. E’ bene che esso ci venga incontro così come fantasma d’una parente o d’un amico del quale si preferisce dimenticare i difetti: perchè se ci aggredisse con la schietta c nuda immediatezza con che et tocca l’ora presente che passa, non sapremmo forse trattenere la nostra voglia polemica ed ironica. Queste musiche smorte invero non ci persuadono: il tono d’assonnata noncalenza, che il poeta prende a prestito da alcuni modelli ben noti, è falso. Sentiamo troppo facilmente che, quella realtà ch’egli vorrebbe far mostra di rinnegare, non l’ha mai conosciuta nè |iosscduta: a quel modo stesso che’ la quotidiana mediocrità, ch’egli vorrebbe farci apparire risultato e somma di molteplici rinunzie, fu accettata, noi lo sappiamo, fin da principio con discreta rassegnazione. La debolezza artificiosa di questo inondo crepuscolare e provincialesco, meglio mascherata nei Colloquil di Gozzano, al quale ha ispirato radi accenti di poesia vera e commossa,:n queste poesie scritte col lapis invece si scopre tutta c- palesa ogni suo vizio. Mondo povero c doppiamente decadente, perchè gli mancano anche la perizia e l’astuzia musicale che nascondono le lacune e le mende dei modelli stranieri, e sopralutto perchè invece d’esser nato o cresciuto come quelli nell’aria di Parigi, aria europea aperta a’ quattro venti, riman chiuso nei limiti d’un’espericnza che non è neppure italiana, ma quasi soltanto regionale, da Pascoli a Fanzini- Mondo non provincialesco dunque, ma provinciale senza altro.

E’ difficile prender troppo sul serio queste jioesie e tesservi intorno un discorso che voglia parer critico. Talora ci s’abbandona con una cotal voluttà alla musica facile c continua dei versi, come nei pomeriggi pigri ed afosi dell’estate si rimane immobili ad assaporare nella fiacchezza del dormiveglia il canto tenue e monotono d’una fontana. Ma gli errori c le stonature son poi tante che bastano a svegliarci troppo spesso e, clic è peggio, a ridestare in noi la coscienza del critico.

E allora ci s’accorge che il fluir trasandato dei versi, il posto preminente che vi prendono le parole più umili e meno significative, l’abbondanza vana e pur misera degli epiteti, certi aggettivi che si ripcton due c tre volte come nelle lettere delle donne, tutte le forme e gli atteggiamenti insomma d’uno stile dimesso e prosaico non son voluti dall’autore in accordo al tono della mnteria rappresentata, bensì son l’espressione spontanea d’un attimo vuoto di sensazioni c privo di stimoli.

Vicn voglia di creder sulla parola al poeta quando ci confessa di non aver niente da (lire, e (piasi si prenderebbero volentieri alcuni suoi versi come la miglior descrizione ( definizione di tutto il libro:

Non c’è nè duolo, nè gioia, non c’è nè odio, nè amore: — nullal Non c’è che un colore:

il grigio, l’un tarlo: la noia.

Scnonchè venir oggi a dir male di queste poesie stampate sedici anni or sono e già dimenticate da’ più (sebbene abbimi fatto allora, ci dicono, un certo rumore), sarebbe ridicolo.

E poi, quando si sia accettata l’angustia c la fragilità di questo piccolo mondo provinciale, non è privo d’un cotal senso di riposo lo stnre a guardare questi personaggi limili e scoloriti clic vivono, ncll’atmosfcra casalinga c campagnola d’un «interno» di Romagna, la loro vita sempre uguale c senza rilievo. E qualche volta anche essi hanno lasciato per istrada con fortuna il tono idealizzato di maniera onde Pascoli aveva voluto adornarli, contraffacendoli. Certe figure, tome n I esempio • Mgitòra l.alla •» la signorina della poesia «Figlia unica» sono occ.ve/.z.Ue dal poeta con una simpatia clic non è j riva di commozióne. Potrebbe ad alcuno intc cesare forse di veder come e fino a che punto da queste poesie derivino le opere successive del Moretti, in prosa: novelle c romanzi. E’ ciò che per l’appunto ha fatto, nel Convegno, Eugenio Levi, il quale ha dedicato allo scrittore romagnolo un suo bel saggio chiaro cd arguto Per conto mio ne apprezzo sopratutto, a dire il vero, la parte critica e negativa:

nè mi pare che le prose del Moretti meritino l’interesse di questa mia cronaca distratta, la (piale vuol mantenersi fin che potrà al di fuori della mischia: nè le credo superiori per felicità c compattezza alle sue poesie: c mi pare insomnia clic si tratti d’uno di quegli scrittori, i quali non sapreblrero imporsi una volta per sempre al nostro gusto, aderendo profondamente e schiettamente alla nostra umana realtà, ma solo ci obbligano, se per caso ci accada una volta d’incontrarli por via, ad un riconoscimento frettoloso c sommario. Talché neppur di qui deriva l’interesse clic io ho provato nella scoperta di questo vecchio libro.

Ho già detto fin da principio che, a comperarlo, mi mosse sopra tutto una curiosità erudita. Più precisamente il gusto di completare con un numero nuovo la mia collezione de’ documenti jier la storia ideale della nostra moderna letteratura. Esprimere le ragioni per le quali una siffatta storia, chi la scrivesse, dovrebbe riuscire quasi j>er intiero negativa e polemica, equivarrebbe a ripetere cose già dette da altri più volte, assai meglio ch’io non potrei ora, in questo scorcio di lettera.

Fu appunto nostra perpetua vicenda, non so se più per colpa degli uomini o d’una condanna in qualche modo connaturata c fatale, che le nostre esperienze letterarie crescessero iti un clima scompigliato tra mille divisioni regionali. E spesso accadde che gli atteggiamenti dei poeti d’oltr’nlpc, introdotti fra noi privi d’ogni sostegno di tradizioni, perdessero ogni lor sapore travasati nelle forme ristrette c immersi nell’aria stagnante e chiusa de’ nostri cenacoli di provincia. Come fu i>er l’appunto il caso anche dei «crepuscolari», ai quali il Moretti appartenne. Questa nostra smorta decadenza, riflesso fievole ed opaco del glorioso alessandrinismo europeo, e francese in ispecic, derivò, come ormai molti sanno, da un grave c generai difetto di coltura. Vogliam dire sia difetto di coltura classica, che iitdticeva i più a trascurare le sorgenti della nostra migliore tradizione, sia difetti di contatti con il pensiero, l’arte e la storia delle altre nazioni d’Europa.

Gli esempi c le cperc di alcuni grandi scrittori moderni c talora soltanto i nomi, ci vennero dalla Francia o dalla Russia o dall’Inghilterra, senza che ci fosse qui lina preparazione storica sufficiente a veramente comprenderli, e così isolati c sradicati ci furon spesso di danno anziché di giovamento. Talché la nostra decadenza letteraria non fu se non uno dei molteplici aspetti d’una più generale c quasi totale ignoranza.

Fc molti ora proclamano di sapore queste verità, lo stato delle cose può dirsi poi veramente mutato in meglio? Per mio conto, ne dubito assai. Quanto alla nostra tradizione letteraria, dal giorno in cui Ojetti ha chiamato gli scrittori viventi a collaborarc alla raccolta delle più belle pagine dei grandi scrittori morti, tutti si credon diventati sapienti c conoscitori profondi d’una materia che appare, a quelli che veramente vi s’accostano, presso che inesauribile. E’ vero che i>cr i più ipicsta sapienza non va oltre la conoscenza ad orecchio di alcune opere più celebri: è vero che proprio quelle edizioni delle «più belle pagine» mostrali l’igtioranzn c l’imperizia degli scrittori giovani e vecchi posti a maneggiare gli strumenti ignoti di quella critica storica filologica cd erudita, della quale pur è vezzo, comune fra loro, dir male. Ma intanto sanno metter fuori a telili» alcuni grandi nomi c qualche citazione opportuna: c può parer a chi guardi all’ingrosso che la coltura sia più profonda e varia: se pur ci si accontenti delle apparenze d’uuo stile, che ormai non sa deporre la palandrana classicheggiante neppur quando si tratti di recensire qualche infelice operetta dei nostri giorni. Son abbastanza recenti i casi d’un letterato italiano che per aver fatto sulle prose di Leopardi alcune osservazioni, non abbondanti, nè peregrine tutt’altro che impeccabili poi, ha creduto di esserne diventato ad un tratto letterato, il quale, avendo stampato certo infelicissime riflessioni su Petrarca e una discreta antologia di scritti del Magalotti, si è dato poi l’arin d’aver dissotterrato i nostri classici, quasi nessuno li avesse letti prima di lui. Questi casi sono assai istruttivi perchè mostrano l’infezione dcll’ignoranz? in quelli stessi che vogliono parere tutti intenti a combatterlaQuanto alla coltura europea poi siamo al punto di prima. E non solo si continuano ad introdurre (senza molta virtù di discernimento d’altra parte) gli scritti degli autori più recenti, a comprendere i quali veramente cd interamente occorrerebbe una più larga conoscenza delle tradizioni letterarie europee: ma già c’è poi chi, sconfortato o troppo audace, parla d’interrompere senz’altro anche i deboli vincoli che ancor ci legano, sebbene malamente, alla vita d’Europa. Perchè, già si sa, gli Italiani non hanno bisogno d’imparar nulla da nessuno. La (piai constatazione è senza alcun dubbio di grandissimo conforto, per tutti.

Guarda un po’, amico mio, dove m’han condotto, in quali difficili pantani, fra teorie c polemiche, le mie visite ai librai antiquari e le poesie di Marino Moretti! Tanto lontano m’han trascinato, che ormai non mi riman più tempo nè spazio per raccontarti le altre mie scoperte, ch’cran forse, o mi parevano, più varie cd interessanti. Ma sarà, se non ti dispiace, per un’altra volta.

SILVESTRO GALLICO.

Giovanni Amendola Riceviamo dal Senatore Giuntino Fortunato queste parole di commemorazione di Giovanni Amendola, e volentieri le pubblichiamo, perchè non solo possano portare nella patria dell’Estinto la testimonianza d’affetto del di lui illustre Amico, ma anche perchè la parola del Maestro esaltando nel Barctti la figura di Amendola suona mònito agli animi incerti e sconfortati e ancora tuia volta indica l’esempio e la mèta ai giovani che seriamente si preparano alle vicende future.

Napoli, 7 luglio ’026.

Entrò nella Camera de’ deputati, insieme con Arturo Labriola — tutt’è due onore del Mezzogiorno continentale, — dopo che io n; ero uscito; ed egli, il diletto amico ’? miei anni migliori, pietosamente moriva il 7 aprile, or sono tre mesi, a Cannes, in Francia.

Non altri più’ spiritualmente e cultura-mente di lui aveva, quaggiù’, dato la generazione posteriore alla mia; nè altri più’ sicuro promettitore di efficace t sai la opera avvenire:

mi naii so che di religiosa austerità si accompagnava col fervido adamantino suo carattere, e bene la democrazia liberale poteva gloriarsi di averlo a capo. Scultorie le parole con cui Roberto Bracco ha compendialo il suo animo: «egli non disse mai* e non pensò mai, io sono, io voglio essere, io sarò».

Nel rileggere le lettere a me dirette lo scorso anno, in quella del 25 novembre, rientrato in Roma più’ tempo dopo il triste caso occorsogli la notte del 15 luglio su la strada di Pistoia, molto mi Itan colpito le sue espressioni finali: n conosco il vostro sentimento», egli mi scriveva; «e, purtroppo, esso è il mio sentimento stesso. Solo, in più’, una fede operosa cd ostinata, che prescinde completamente dal successo (ormai, definitivo insuccesso) della mia vita politica, e dalla storia dei’ prossimi venti 0 trent’anni. Ma poiché la fede non si discute, quando ragioneremo, ci troveremo sempre d’accordo». — F. d’accordo ci trovammo l’ultima volta che fu qui, la sera del 27 dicembre, mio commensale. Nel lasciarci, nulla egli nu accennò del proposito e della necessità di muovere per Parigi, onde sottoporsi a grave operazione chirurgica; nè altro poi io seppi fin quando, casualmente uri giunse notizia del grave improvviso pericolo di sua vita e dell’affrettata sua partenza per la cittadina delle Alpi Marittime. Ivi, immediatamente, io gli scrissi; ma la lettera non arrivò se non dopo che egli era spiralo, poco prima dell’alba, le mani in quelle del figlio e del fratello: nè il dolorosissimo annunzio, che monco c misterioso tardò tanto io mi ebbi se non a mezzo del fido suo discepolo Umilio Scaglione, cui mi è grato rivolgere pubbliche grazieGiustino Fortunato.

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