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Iti Si Orme abbiamo la lotta tra l’umore c la legge — ma. confusione solila, l’amore umano, |>cr una donna, ò confuso con l’Amore, anelito al divino — e quindi tulio viene falsificalo in qualcosa che si può anche chiamare retorica e in cui precipiti, anche, il dissidio tra padri e figli, liberta contro tradizione, altro aspetto del dissidio Amore-legge. L’atmosfera del dramma, clic vorrebbe essere shakespeariana o cosmica, finisce per essere soffocata dalle trop.

pc parole, dalla troppa messa in scena, irreale, fatta di apparizioni e di spottri, Molto azioni, nessuna azione: il simbolo non si riunisco alla realtà. I personaggi finiscono por esaurirsi nel girare attorno ad allegorie. E’ il difetto del dramma moderno (l’epoca dei fnrsicsten Taltnlc,.secondo la definizione goethiana per la letteratura di un secolo fa, per certi riguardi simile alla nostra, e dolle violento, arbitrarie esperienze).

La rappresentazione drammatica non riesce a lfborarsi dalla realtà, dal caos che la preme da tutti i lati, e si appiglia a violente riforme esteriori per illudersi di raggiungere una vita autonoma. Ma nel soggiacere stesso quanta forza c quanta poesia qui abbiamo I Certe battaglie, anche porduto, nobilitano.

Guardiamo i duo drammi: Ein Gè schicchi Plats.

Qui, sopratutto nel primo, l’azione vorrebbe essere ridotta alla semplicità di una lotta tra principi elementari. Non uomini o neppure simboli, ma simboli fatti uomini, «la tragedia non ò legata al costume di nessun tempo*.

Quindi: un capovolgimento di valori, un annullarsi di verosimiglianze c un esplodere assoluto di| affetti. Affetti, o qui è la forza del poeta, altrimenti si cadrebbe in un pasticcio simbolico, che riescono a prendere una veemente intensità drammatica. Anche qui la guerra, la diretta esperienza del poeta, è al centro del dramma. La guerra scatena negli uomini le forze profonde e oscure, nate oon noi, indissolubilmente legate, come la vita come la morte, alla nostra esistenza di decaduti, colpiti dalla maledizione del peccato Quelle forze che la civiltà pacifica nel ritmo solito può comprimere, non illudersi di annullare — la guerra le fa esplodere con forza disordinata. Chi conduoe al delitto ò la stessa energia che nell’uomo, posto in faccia al nemico, con un’arme in mano, l’avcva trascinato in avanti — e chi chiede ora, inesorabile, la punizione ò quello stesso potere che prima aveva onorato come un eroe, quel medesimo uomo, ancora tutto coperto del sangue dei nemici. Perchè, appunto, sopra questo scatenarsi di passioni e di energie elementari che la guorra risveglia, sta la legge, che le adopera ai suoi scopi. «Qual’è quel potere, che piega tutti gli esseri, finché perdono completamente la loro propria volontà?»: la patria, in questo momento. L’una passione ò glorificata:

«si, più Nolentieri tu andresti oggi coi figli eroi, sorridendo in mezzo ai cittadini inginocchiati»; l’altra punita: «prima ci trascinano con violenza sulle vette vicino al sole, e quando il nostro petto si ò disabituato alle valli, così che non può più sopportare il suo giogio da contadino, allora ci si colpisce il cuore con le leggi». Ridotto a questi elementi si comprende come il delitto si possa rappresentare con una violenza che non è cinismo, giustificazione assoluta (niente di più lontano da Corrado Brando), ma dramma. La madre può comprendere e, straziata, difendere — ma la legge devo passare egualmente. La ribellione bruta a questa legge finisce nella demagogia, colpevole e vile, anche se vittoriosa — invano si ora gridato alla libertà: «ed ora voi oscillate tra bestia e Dio, miserevolmente, invece di sentire che dovete essere Uomini, nati per il godimento dol vasto mondo, che si apre nel vostro petto».

Attraverso al simbolo doll’Amoro, approfondimento nella natura, c’è l’ansia verso una vita nuova che ci liberi l’avvenire, e c’è, sopratutto, l’oscuro sentimento dell’inesorabile tragicità del nostro destino.

Come in tutti i drammi di questo genere — in cui non ò stato ancora trovato un sicuro equilibrio di forze di rappresentazione — l’idea, dirò così, filosofica, su cui si costruisce il dramma, se è un elemento, con tutte le sue esagerazioni ed oscurità, necessario, per l’incompletezza appunto dell’opera poetica — rimano sempre intrusa. Qui, ad esempio, l’Amore, per la solita confusione tra Amore c. amore, altro che crear una nuova umanità redenta • dovrebbe condurre l’eroe — Dietrich — al fallimento.

«Verraten um ein Madchcn».

La forza la troveremo quando il dramma sa liberarsi dalle scorie c ritrovare lu vena umana.

Allora gli clementi fondamentali rivivono in parole sincerissimo ed energiche: la profonda violenza del peccato d’origine (l’eterno uomo), la volontà di liberazione dalla legge, la lotta tra dovere e libertà. Le due opere — che sono uscite dal tormento della guerra e dol dopoguerra — con tutti i loro difetti e, sopratutto, l’incompiutezza, vivono come rappresentazione del dramma a cui la nostra umanità è stata sottoposta. La guerra nc ò stata apportatrice e rivelatrice, e così: non il dramma singolo di questo o di quell’individuo, di queste o di curile passioni, ma — noi titolo stesso: ein geschlecht — rappresentazione del tormento di un’epoca.

Tormento da cui quest’opera esco ed è espressione nella sua stessa incompiutezza; ma appunto questo ci dice come profonda sia la sofferenza umana.

Già in Vor dtr Entscheidunj era stata posta quest a necessita di ribellarsi alla legge del passalo e di ritrovare in noi — oon la nostra più profonda umanità, la nuova legge. Ossia: ò veramente eterna questa necessità che ci spinge alla guerra?’A Kle19t, il patriota — l’ulano ri.

pondo, «il tuo furioso comando di odio non ci commuove più — la riconciliazione ci unisce, e l’Amore apre alle muse un nuovo orizzonte».

La volontà di pace si poneva, cioè, mentre intorno cadevano milioni di uomini, come tutt’uno co! ritrovamento di noi stessi; c la trilogia ri a Ge.schllcht vuol essere il dramma di questa umanità che, brancolante, uscita dalla strage, ricerca se stessa. E il poeta sa talvolta elevarsi ad un altezza da cui questo cadoro c risorgere è visto in tutta la sua profonda verità.

Ed è vero: quello che vale per l’umanità, vale pei* noi, singoli uomini — nella nostra individuale colpa, nel nostro individuale cercare un miglioramento — . La prudenza parla: «Ogmmo di noi ha nuotato, per provare le sue forze, sul mare, come te, l’occhio fiso a fantasmi! Il sognatore affondò, il perdente tornò indietro.

Perchè la nostra vita, senza meta, c chiusa da ogni parte in un cerchio immutabile.

Torna indietro!» — «Ah 1 posso io questo? Potè mai alcuno tornare indiotro, dal sole alla luce fumosa di una lanterna notturna?» — Troppo profonda è l’umiliazione della pigrizia: «noi non abbiamo mai vissuto. lTn tempo abbiamo sognato, forse. Oh, una volta — ...ed un giorno otrisceremo fuori dai nostri letti — il corpo vive, l’anima è morta da lungo tempo, ci trascineremo zoppicanti per la strada, rosicchiando il nostro pane e la gente dirà: «guarda un po’, già guarito c ben rimesso?»

Quello che nel dramma, ed era naturale, è solo accennato — ed era forse anoora più presagio e volontà che realizzazione poetica — rivive in un campo più proprio, nei Discorsi del poeta e nell’ultimo libro Flagri dtr Filer, libro di un viaggio a Parigi e a Londra. Fritz von Unruh si schiera così, decisamente, nel piccolo stuolo europeo dei poeti pacifisti.

Non è qui il caso di parlare dei problemi politici della pace europea. Quello che interessa è come il pacifismo di Unruh si pone al centro stesso della vita e del mondo poetico dello scrittore.

La politica, l’idea della pace sono tutt’nno con l’animo del poeta e con la interpretazione delle cose che gli stanno intorno. Il suo pacifismo, il suo umanitarismo non sono semplice utopia o debolezza, ma ricerca di una volontà più profonda E la violenza stessa dell’espressione pare voglia scoprire a forza il segreto dell’Anima, mettere l’uomo di fronte a se stesso.

Ne nasce un’armonia vigorosa, in uno stile pieno di forza scarna e ner%-osa: combattiva; che lascia scorgere nel suo stesso ritmo severo larghi orizzonti. La politica di Unruh può essere discussa; non è vero che i partiti non abbiano una profonda funzione storica — ed il pacifismo, anche il più energico e combattivo, rimane disarmato se non è sostenuto da organizzazioni e da necessità politiche ed economiche.

Un pacifismo, pure così sentito e che sorgo così oommosso dalla terribilità della guerra e come sentimento del dovere, se è solo pacifismo, rimane essonzialmente intellettuale — in.

capace di suscitare l’adesione che di intollcttuali isolati. Ma quello che Unruh ha inteso è come il pacifismo come tutti i problemi politici, sia un probloma morale — che non ha forza sulle folle se prima non è elaborato e profondamente vissuto nella coscienza dei singoli.

«E‘ la paco una forza o una debolezza? — io credo la pace sia una forza». Alla pace deve essere dato lo stesso prestigio c la stessa forza che la guerra, attraverso il sacrificio, si è conquistato:

«noi dobbiamo essere soldati della paoe, non sognatori della pace! Combattenti, non letterati c pacifisti della pace!»

Quello che importa qui segnare ò come questa energia di pacifista 9Ìa la logica strada del ]>oeta e il termine integralo di una visione della vita, sforzo di apportare una energia nuova nella letteratura di oggi, in quanto pone come unico (bene come unico tesoro da salvare i più profondi valori morali,il più profondo noi stessi. Ossia non importa come noi pensiamo, ma con quanta intensità con quanta sincerità noi perseguiamo questo pensiero. L’arte è vita e la vita è arte. Non basta aver trovato la via giusta; bisogna che questo ideale sia risolto ed avverato in noi stessi (quasi vorbo divino fatto carne: communionismo è la parola del poeta) in ogni atto della nostra vita.

Si è fatta troppa «arte per arte», cosicché, per esagerato amore, si è finito per chiudere l’opera d’arto — e l’artista stesso — in una torre d’avorio, in cui, fuori della vita, una creazione poetica vigorosa non può trovare alimento.

«Veri artisti sono combattenti all’avanguardia e pionieri».

E quello che vorrei aver reso del pensiero di Unruh è appunto questo: usciamo dalla UtIr rat uro per ritornare nella vita. «Non permetriamo che parlino oggi uomini che mentre noi stavamo sotto il fuoco delle granate, erano fermi alle loro postille estetiche, e mentre noi ci volgevamo indietro alla patria gridando il nostro tormento di fronte al pallido orrore della morte di milioni di uomini, essi ne facevano, calmi, commenti letterari». Perchè anche un loro possibile internazionalismo non ci commuove:

«cosa vuol dire questa mangeria internazionale, dove l’un l’altro ci si fanno inchini e si combinano articoli?»

Le parole del poeta sono violente ed infiammai,»

— ma a chi le guardi belio, sopratutto se ha seguito lo sforni continuo con cui Unruh è arrivato a queste conclusioni, esse rinchiudono una verità - e una chiave por interpretare buona parte dell’ultima letteratura euroj>ea. Se la guerra e il pacifismo sono stati il problema di Unruh, il suo sforzo di infrazione e di approfondimento, vale per tutti i campi. So Unruh sia riuscito a darci una grande poesia o una grande prosa, è ancora presto per giudicare, ma mi pare che jwssiaino trovare in lui un indirizzo cd un esempio. E questo è molto.

Mario Lamberti.

SOFFICI A VENEZIA <i Eppure è evidente, per chiunque sappia pensare con una certa profondità, che, essendo le manifestazióni dello spirito umano tutte connesse fra loro c interdipendenti, ad ogni principio politico deve di necessità corrispondere un principio estetico, come glie nc corrisponde lino morale e logico, armoniosamente, come membro corrisponde a membro in un corpo vivo; c che dunque ò cosa di massima importanza rendersi e rendere altrui chiaro quale sia questo principio, affine (l’applicarlo in luogo di qualunque altro meno confacente, se non addirittura contrastante con l’insieme della dottrina, nell’applicazione e nel pratico concretarsi di questa».

Cosi, saviamente, parlava su una qualche persa foglia di sicomoro, Ardcngo Soffici tramutato, su quell’altare che ognun sa, in vaticinante Sibilla. E pensavamo a che cosa (sia per tener fc le a questa bella massima, sia per seguire l’esempio di quella sua collega francese che mostrava, dopo avor dato il responso, un antro assai poco elegante) ci avrebbe ancora potuto mostrare di bello Soffici, dopo aver così vaticinato. In letteratura, ò noto, il principio politico cmfiélra si bicn Ics serres dii corbeau qtie le panvre animai nc fruì fairc retraite:

ne nacquero solo dei filosofemi. Ma in pittura?

L’ingenuo lettore poteva legittimamente attendersi il ritorno di maniere futuriste o, se queste fossero apparse ormai troppo ardite, di qualche loro equivalente più antico, estratto dai non mai ben chiusi arcadici serbatoi.

Ma ecco, in una sala della Esposizione di Venezia (dove egli aveva fatto giuro» modesto c irrevocabile» di non porre più piede — in eterno) venticinque suoi lavori, quasi tutti recentissimi, pare vogliano cancellare queste prevenzioni. Abbiamo tutti conosciuto, o creduto conoscere, (o almeno immaginato dai suoi scritti) questo artista d’istinto, mai sommerso dalle esperienze più varie.

Amavano trovare in lui un fattoriano di tenue vena, ma limpida; un toscano dell’’8oo, di quelli che, vissuti pienamente al loro tempo, alle prese con tutti i moderni problemi dell’arte, furon pur sempre legati per tenaci c occulti legami alla antica tradizione pittorica del loro paese. Parentela di razza: egli aveva, come quelli, «le caractère national, exact et attcntif aux détails, plutót que passionili», c molta semplice chiarezza di visione, c la solida aridità, un po’ gretta, della sua terra, e, soprattutto, una mirabile immediatezza di percezione. La «infernale sensibilità» dei tempi del Giornale di Bordo, che gli faceva vedere, in un tòcco di giallo, tutti i cieli e tutti i soli, era. a nostro avviso, esagerazione; chè la sua natura paesana stava invece in un certo talento freddino e gustoso, c, ciò che ò il più pregevole dono, nella non voluta nò mediata capacità di tradurre in termini pittorici i dati di una pur non eccessiva sensibilità. Non altro dunque che pittura: chiare ricerche di toni, non disgiunte da preoccupazioni formali: colore non inteso come valore decorativo, ma come luce; precisione di rapporti; incapacità di grandi costruzioni ma saporosa modestia:

mancanza di tutto ciò che altri vorrà chiamare letterario, o altrimenti, e che ò, insomma, eterogeneo.

Tale l’abbiamo conosciuto in tanti paesaggi e nature morte dipinte con la penna, ma pensate con pennelli e colori. Tale può apparire, a primo sguardo, la sala veneziana, un po’ monotona, per altro, per la dolce luce giallóni clic smorza le differenze in una uniforme velatura di antico. Tali, se ci facciamo a un esame più particolare, ci sembrano, ad esempio, Boccale e timone, Fagliai, Dalla mia finestra, e, qua e là, particolari sparsi nei piccoli quadri. E vicn caso di porsi allora il problema col quale abbiamo cominciato; c argomentare clic forse in pittura, per quel tanto di manuale, di tecnico, di alieno da concetti c formule clic caratterizza quest’arte, sia, malgrado tutti i» principii», assai più difficili che nell’esercizio dello scrivere sviarsi e perdei c ciò clic ormai era acquisito; clic la mano stessa c il mestiere possono far dimenticare la cattive abitudini mentali, o essere almeno efficaci mezzani di pensieri c di opere, e maggiorment.

quando, come in questo caso, sia di tanto aumentata la quotidiana applicazione.

E vien soprntuttv fatto di pensare che questo c innocente profeta» sia tale solo alla superficie, e clic, pc-r usare una frase di un suo autorevole nemico, Soffici sia assai più» lì li us!oci» clic er quanto in grado diverso, in alcuni paesaggi b nature morte; ma le cercheremmo invano, o le ritroveremmo offuscate e contraddette nei quadri di maggior mole. Qui abbiamo, al contrario, qualcosa di precisamente opposto: invece il: immediatezza, una.ricerca tutta voluta di monumcntalità, di armonia, di decorazione.

Questo in misura minore in «Ragazza portante una mezzina d’acqua», alquanto scorretta peraltro, e nella «Toilette del bambino», (dove abbiamo invano cercato le ombre seicentesche care a Ugo Ojetti), in misura maggiore in» Donne Toscane che conversano davanti all’uscio». Qualcosa di programmatico, di intenzionale si frappone fra la visione e la pittura: ma la perduta spontaneità non si compensa. I.a monumcntalità si riduce a facili simmetrie, a immobilità di figure impoverite di senso particolare c di vita; l’abilità decorativa non va oltre qualche falsa trovata di colore, come il rosa della porta in quest’ultimo quadro.

E’ uso comune, oramai,» inserirsi» nella tradizione, cercare progenitori ideali. Soffici pare abbia seguito la corrente, e si sia scelto un modello. Anzi, ha trasformato in modelli esteriori quelli stessi da cui derivava in modo tutto nativo e intcriore: i toscani, Masaccio.

Borghese moderno, egli ha pur nel sangue un IK>’ del sangue dell’avo che fu alle Crociate, ma dell’avo egli vuole imitare anche il passo e il costume, c indossar l’arme che più non s’usa. Egli crede ritrovar sò stesso attraverso ricerche difformi dalla sua natura. Se vorrà proseguire nel viaggio clic dice di aver appena incominciato, gli converrà ripetere per sò le parole che egli stesso pronunciava per altri, e di ben maggior volo- ((l’istinto pittorico ò talmente la dote fondamentale del nostro artista, che non ò se non profondandovisi tutto ch’egli arriva talvolta a ricollegare il proprio col più antico cd elementare genio della razza».

Per ora i suoi lavori risentono della contemporanea presenza e discordia del vecchio Soffici che si affida agli ocelli, clic gli danno già fatte e perfette le «sintesi realistiche», c del nuovo, che si affida al «principio estetico corrispondente» e clic guasta l’opera del primo. Non sarebbe qui, forse, «le trou de la Sibylle»?

C. L.

G. B. PARAVIA A C.

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